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IV.

AL SIGNORE

ANTON FEDERIGO SEGHEZZI

A VENEZIA

Che la natura non basta a fare il poeta.

Sorgi, all'erta, o Seghezzi; a te discopre
Febo amboi gioghi.O gufi,o uccei di notte,
Le pendici radete; a voi si alto

Volar non dassi: eccovi tronche l'ale:
Egli le spieghi, e su e¦su s'innalzi.
In qual nido vesti piume si forti
Cotanto augello? Di figura usciamo:
Scrivasi aperto. Solitario visse,
Non infingardo: piccioletta stanza
Che pensier non isvia, poco ed eletto
Numero di scrittori, una lucerna
Nel buio della notte, un finestrino
Chelo illumina il di, penna ed inchiostro,
Anima negli studj a lui sono ale.
O pöeti godenti, le gentili

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Mammelle delle Muse hanno a dispetto
Bocca piena di cibo, e che si spicchi
Allor dal fiasco. O le pudiche suore
Seguite, o il vostro ventre: or l'uno, or l'altro
Seguir non dà dottrina. Alle fatiche
Amica è Poesia; di là sen fugge

Dove si dorme, e Dio fassi del corpo.
Veggo mille quaderni: è chi mi spiega
Lunghe canzoni; con vocina molle
Altri legge sonetti, e posa il fiato
Or sull'unquanco, or sulle man di neve.
Ma che vuol dir, che mentre ei legge, il sonno
M'aggrava gli occhi, e cade il mento al petto,
E se voglio lodar, parlo e sbadiglio?
Oh ciechi! quei che voi con sonnacchiosa
Mente scriveste, in me sonno produce.
Così non dêtta quest' ornato ingegno:
Veglia scrivendo, ed io veglio s' ei legge.
Se tu, che scrittor sei, fuggi il lavoro,
E ti basta imbrattar di righe i fogli,
Perchè presumi di tenermi a bada
Con la tua negligenza e con gl' imbratti ?
Veggo la noia in te, m' annojo teco.
Non uscir di tua stanza ; ivi ti leva
Di là dove scrivesti, e come chioccia,
Schiamazza, croccia, e su e giù rileggi,
Passeggiando contento, alle muraglie,
Con qual voce più vuoi, l'opra tua fresca.
Me lascia in pace: senza le tue carte
lo viver posso; se tu vuoi ch' io ascolti,
Allettami, ammaestrami, e mi vesti
L'amo di dolce e di gradito cibo.
Ho natura felice; in poco ď ora
Dêtto quanto la mau corre sul foglio.
Biasmo la tua natura, chè sì spesso
Mi travagli gli orecchi. In prima, taglia
Una parte de' versi. Io paziente
Sono alla vena tua, quando congiunta

Sarà con l'arte. La feconda vena
Troppo produce: l'arte sola è magra.
Rompe il coperchio ogni soperchio. Sciogli
D'ogni freno il destrier; corre pe' campi
A lanci, a salti, e nulla non avanza,
Stringi troppo sua bocca ; esso è restio.
Tieni nel mezzo. O Anton Seghezzi, dove
L'acuta ira mi tragge? Ecco gli orecchi:
Empigli de' tuoi versi. Io taccio: or leggi.

V.

ALL' ABATE

ADAMANTE MARTINELLI

De giudizi che si danno intorno a' poeti. Che natura sola non fa il poeta, ma l'arte a quella congiunta.

T

acer non posso, o Martinelli: quànti Giudici di poeti oggi son fatti

E maestri a bacchetta! Ognun favella
Di poemi e canzoni, ed a cui vuole,
Di sua man porge la ghirlanda e il pregio.
Ma se Apollo chiedesse: in quali scuole
Tanto apprendeste? chi vi die' tal lume?
L'ozio? la sgualdrinella? il letto molle ?
O co' tripudj, i pacchiamenti e il vino,
V' entrò la sagra poesia nel corpo?
Rider vedresti questa turba, e farsi
Beffe di lui; si per natura e ingegno
Dotta si stima, e l'opre de' migliori
Nota e riprende con sentenze e rutti.
Ma se al rozzo villan gridasse un d'essi :
Questo duro terren zappa più a fondo,
Zucca ceppo balordo asino, zappa;
Risponderebbe : o tu che si m'insegni,
Qua vieni in prima: or via, mostriam le palme,
Veggansi i calli: io con la schiena in arco
Sudai molti anni, io questa terra apersi,

Volsi, rivolsi; or tù, come sedendo
Con le man lisce, di saper presumi
Quel che a me insegna la fatica e l'uso?
Tanto di chi non sa, s' egli corregge
La voce empie di stizza. Ě noi dovremo
Taciti sempre e neghittosi starsi ?
Chi pecora si fa, la mangia il lupo.
Andiam sotterra almeno. Eccoci entrambi
In un'ampia caverna. Or qui gridiamo
Che siam coperti; Mida, Mida, Mida
Gli orecchi ha di giumento. Ancor di sopra
Forse ci nasceran cannucce e gambi
Che le nostre parole ridiranno.
Udite, o genti. Chi fra se borbotta:
Nasce il poeta a poetare istrutto,
Non bene intende. Se tu allevi il bracco
Nella cucina fra tegami e spiedi,
Quando uscirà la timorosa lepre
Fuor di tana o di macchia, esso in obblio
Posta la prima sua nobil natura,
Lascia la lepre, e per appresa usanza
Della cucina seguirà il leccume.
Molti alla sacra poesia disposti
Intelletti son nati, e nasceranno;
Ma ciò che giova? La coltura e l'arte
Elarator fanno fecondo il campo
Di domestiche biade; e chi nol fende
In larghe zolle, poi nol trita e spiana,
Vedrà nel seno suo grande abbondanza
Sol di lappole e ortiche, inutil erba.
Ecco, in principio alcun sente nell'alma
Foco di poesia: sono poeta,

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