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Esclama tosto: mano a' versi; penna,
Penna ed inchiostro. E che perciò? vedesti
Mai, Martinelli mio, di tanta fretta
Uscire opra compiuta? Enea non venne
In Italia si tosto, e non si tosto
Il satirico Orazio eterno morso
Diede agli altrui costumi. ' vidi spesso
Della caduta neve alzarsi al cielo
Castella e torri, fanciullesca prova
Che a vederla diletta: un breve corso
Del sol la strugge, e non ne lascia il segno.
Breve fu la fatica, e breve dura.
Fondamenta profonde, eletti marmi,
Dure spranghe, e lavoro immenso e lungo
Fanno eterno edifizio. Or tremi, or sudi
Chi salir vuole d'Elicona al monte;
Poi salito lassù, dètti o riprenda.
Gli altri son voce. D' ogni lato ascolti
Nomi di fantasia, d'ingegno. Tutti
Proferir sanno buon giudizio e gusto:
Paroloni che han suono. All'opra, all'opra,
Bei parlatori. A noi dà laude; il volgo
Cerca laude comune. Allor fia d'uopo
Cercar laude volgar, quando da' saggi
Cercherà laude la comune schiera.
Chiedasi eterno onore. O tu che parli,
Chi se'? Son uomo. E se' poeta ? io sono
Quel ch'io mi sia; ma non mai taccio il vero

VI.

AL COMMENDATORE

COSIMO MEI

Dice le cagioni e ragioni che lo fanno essere

trascurato.

Se di profondo pozzo alcun vedessi

Tirar su l'acqua, e per l'imbuto l'acqua
Versare in vase sforacchiato e fesso,
Non rideresti, o Mei, non gli diresti:
Lascia, o meschino; quanto tu di sopra
Versi ostinato, tanto esce di sotto.
Sciocco lavoro! giù nel buio inferno
Sia di Danao alle figlie eterna peua.
Ma perchè poi rivolto a me pur chiedi
Ch'io m' affatichi, e l'infingarda mente
Svegliar procuri dal suo cupo sonno,
E d'Epicuro e Metrodoro gli orti

Si mi rinfacci? Io dopo mille e mille
Perduti stenti alfin m'adagio e dorino.
Chi vede a vôto andare ogni speranza,
Disperi, e cerchi in sè la sua quïete.
Poscia ch' io si fermai nel cor, la vita
M'è dolce sogno, e sogno è quant'io veggio.
I' solea già d'ogni mio caso avverso
Grave doglia sentir; vedea da lunge,
O vedergli volea, travagli e affanni.
Fra pensieri e ripari era la vita

Sempre in burrasca,e mai non vedea porto.
Le cortine or calai; d'intorno a gli occhi
Di mezzogiorno di mia man m'ho fatto
Buio, tenebre e notte; e quanto veggio
Venirmi avanti, è apparimenti ed ombre.
Or avvenga che vuol; dormendo dico:
Ecco il sogno novello; ho detto e passa.
Se l'immaginativa a noi dipinge
Il fiorito giardin, l'ombrosa selva,
Lo sfuggevole rivolo per l'erba,
Larga mensa, miuiera, o scena lieta,
O amata donna, sì che a noi si rompa
Sul caro corpo la feconda vena;
Godiam del sogno; e se da' monti il nembo
Vola e scoppia la folgore, o cometa
Sopra ne striscia con l'ardente coda,
Non durerà la visione acerba.

Si fatta è la mia vita. Ah ne' primi anni
M' ingannò' pedagogo! Odimi, o figlio,
Dicea: studia, taffanna e t' affatica;
Util opra farai. Chiaro intelletto,
A cui lanterna è la dottrina, molto
Vede ed acquista; esso è onorato, ein breve
Quanto brama possiede. Era menzogna:
Ma qual colpa n'ebb'io? l'età fu quella
Che alla garrula vecchia a lato al foco,
Delle Fate credea le maraviglie,

E che delle trinciate melarance
Uscisser le donzelle. O buon Platone,
Tu che dài bando alle fallaci ciarle,
Perchè poi lo studiare anche non vieti?
Qual cosa ebb'io per lungo tempo cara,

GOZZI

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Più che viver solingo, e con le dita
Fregarmi gli occhi per cacciare il sonno,
E volger fogli? Ecco il tesor che n' ebbi :
Stomacuzzo di carta, un mesto umore,
Un pallidume, una magrezza eterna.
Voi mi träeste di si duro inganno,
Voi saggia schiera, legnaiuoli e fabbri,
Quando si lieti all' imbrunir del giorno
Io lasciar vi vedea pialle e fucine
Dopo un picciol guadagno, e andar contenti.
Qual dottor vi somiglia, allor che in torma
Nelle vostre barchette a' di festivi

Cantando andate, e le artigiane donne
Fan risuonare il cembalo e i sonagli?
Quando vi scorgo dalle sponde, io grido:
Oh sante braccia! oh fortunate carni
Vote d'ingegno! Come vien si pigli
Il mondo, e giri sue ruote la sorte.
Io così mi confermo, e quel ch' ho in mano,
Dico, è mio; più non curo. Andò la sciocca
Villanella al mercato, e un vase avea
Pien di latte sul capo, e fra suo cuore
Noverava il danar, ne togliea polli,
Indi un porco, e con quel, vitello e vacca,
Tutto a memoria; e fra sè dice: oh quanto
Vedrò lieta balzar fra l'altre torme
Il mio vitello! e per letizia balza.
Cade il vase, si spezza e versa il latte.
Castelli in aria. È la Fortuna chiusa
Da nera nube: parmi averla in mano;
Fa come seppia: schizza inchiostro e fugge.

VII.

AL SIGNOR

STELIO MASTRACA

Gli rende conto del passeggiare la sera in piazza.

Mentre che nel Friuli in mezzo a' monti Pien d'opra e di pensier tu passi i giorni, Uom da faccende, io inutil vita, in barca Consumo il tempo, o per le vie passeggio. Or poss' io fra tuoi gravi alti consigli Entrar con le mie ciance? Oh, di che temo? Talor per poco volontier s'ascolta Il garrulo augellin che dalle travi Pende nella sua gabbia; e chi non vuole Più a lungo udir, volge le spalle e parte. Bolle l'ardente luglio, e delle case Donne, donzelle fuor discaccia, come Fuori dell'arnie, dove son ristrette, Fa sbucar l'api il villanel con zolfo. Scocca l' un'ora: è luna piena: io vado. Già sono in piazza,ed invan l'aura attendo Che col suo ventilar mi dia conforto. Soffia scirocco che m'aggrava i lombi Sì, che m'accoscio. Or che farò? Notiamo. Come dal fosso l'acqua sbocca, quando È la chiavica aperta, ecco ch'io veggo A torme a torme fuor d'ogni callaia

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