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XI.

Contro il gusto d'oggidì in poesia.

Perchè più tacerò? dicea Macrino,
Spolpato e giallo pe' sofferti stenti
Fra libri, calamai, fogli e lucerne :
Ho lingua,hopenna,ed han misura e suono
Anche i miei versi. Oh! son di bile vôto,
Uomo di spugna e d'annacquato sangue ?
A te l'attacco, di Latona figlio,
Mendace Apollo: tu sai pur che un tempo,
Alle pendici di tua sagra rupe,
Qual di tuo buon seguace e di poëta
È l'uffizio, ti chiesi. Il cielo, il mare
Mi mostrasti e la terra, e degli abissi
Fin le nude ombre ed i più cupi fondi,
E dall'alto gridasti: pennelleggia,
Imitatore. Agl'infiniti aspetti

Posto in mezzo, temei, come la prima
Volta uscita del nido rondinetta
L'ampio orror dell'Olimpo intorno teme.
Ma chi creder potea che farmi inganno
Dovesse Apollo? Ricercai boscaglie,
Pensoso imitator, segrete stanze,
Incoronate di verdi erbe fonti;
Me medesmo obliai. Colla man volsi
La notte e il di sceltissimi quaderni
Di gran mäestri, e di defunti corpi
Venerai chiari nomi e vivi ingegni.
Qual d'edifizio diroccato sbuca

Fuor di sfasciumi e calcinacci il gufo,
Aline uscii: poche parole, e agli usi
Male acconce del mondo in sulla lingua
Mi suonarono in prima, Omero e Dante,
Dalla chiusa de' denti uscirmi spesso
Lasciai conlaude. Oh, di qual tomba antica
Fuggi questo di morte i fracidumi
Tisico lodatore? udii d' intorno
Zufolarmi, ed il suon di larghi intesi
Sghignazzamenti, e vidi atti di beffe.
N' andai balordo; e di saper qual fosse
Bramai di nuovo la poetic' arte,
Di cui mal chiesto avea forse ad Apollo.
Seppilo alfine. Poesia novella

È una canna di bronzo atta e gagliarda,
Confitta in un polmon pieno di vento,
Che mantacando, articoli parole
E rutti versi. Se aver don potesse
Di favella un mulino, una gualchiera,
Chi vincerebbe in pöesia le ruote
Volte dall'acqua che per doccia corre?

Tanto solo il romor s'ama e il rimbombo!
Su la chiavica dunque; un lago sgorghi
Rimbalzando, spumando, rintuonando
Di poesia. Del Venusin si rida,
Di palizzate e di ritegni artista,
Che a si ricco diluvio un dì s'

oppose. Ogni uom sia tutto. Il sofocleo coturno Calzi e il socco di Plauto : or la sampog na Di Teocrito suoni, or alla tromba Gonfi le guance, o dalle mura spicchi 1. Pindaro la cetra, o il molle suono

D'Anacreonte fra le tazze imiti; Anzi pur meschi la canora bocca Quel che la magra Antichità distinse. Bello è che a'casi di Medea si rida, E orror mova lo Zanni. È novitate Quel che ancor non s' intese. Alto, poeti : Questa libera età non vuol pastoie: Tutto concede. Oggi cucir si puote Lo scarlato al velluto, augelli e serpi, Polli e volpi accoppiar, pecore e lupi. Bastan festoni d'annodargli: lega Per la coda o pe' piedi; io non mi curo. D'entusiasmo sempre ardente fiamma Chicdeasi un tempo; e senza posa un'alma Star sull' ale vedeasi, e rivoltarsi

Or quinci, or quindi misurata e destra.
Era contro a natura. Ah, non può sempre
L'arco teso tenersi, e talor fiacca.

Or basta, ch' empia all'uditor gli orecchi
Sul cominciar sonoritade e pompa;
Poi t'allenta, se vuoi, põeta, e dormi.
Tal nella prima ammattonata chiostra
Movesi il cocchio, e con picchiar di ruote
E ferrate ugne, qual di tuon, fa scoppio;
Esce poscia sul fango o sull' arena,
E fa viaggio taciturno e cheto.
Fu già lungo fastidio e dura legge
Studiar costumi: favellava in versi,
Quale in selva Amarilli; e sulla scena,
Qual nel porto Sigéo, parlava Achille.
Or comune linguaggio hanno le piazze,
La corte, i boschi, e Nestore e Tersite;

E può la spaventata pastorella

Da notturne ombre, da fragor di nembo,
Da folgore di Dio che i marmi rompe,
Di sè stessa obbliarsi, ed aver campo
Di meditare e proferir sentenze,
Filosofica testa, in tal periglio.
Trovar può il Re la fidanzata sposa

In preda al sonno all'empio servo in braccio,
Egli cheto parlar, faceto il servo.
Faceto e di che temi? hai forse il sale
A cercar dalle arguzie, ove nudrisce
Gioconda urbanità spirti gentili?

No: la Mattea che con la cioppa in capo,
Rivendugliola va di casa in casa,

N'è grau maestră, e chi sbevazza, e a coro
Fa tra boccali gargagliate e tresche.
Quivi è la scuola, e la maniera è quivi
De' frizzanti parlari, ambigui detti,
Onde tanto si gode e si conforta
Venere genitrice, ove s' accenna
Sol la domestichezza delle cosce.
Si cinguettava, e favellar più oltre
Volea Macrin; ma gli tirò l'orecchio
Crucciato il lunge-säettante Apollo.
Che fai? gli disse; e perchè più bestemmi?
Vedi il mio coro. Alzò Macrino gli occhi,
E vide le divine alme Sorelle

Preste a fuggirsi, e ad apprestar Parnaso
In gelate nevose alpi tedesche,
E a vestir d'armonia rigida lingua.
Coscienza lo morse: il mento al petto
Couficcò, tacque, e confessò che il vero
La prima volta gli avea detto Apollo.

XII.

Contro alla mollezza del vivere odierno.

Quando leggiam che l'inclite ventraie

Degli Atridi e del figlio di Pelèo
Ingoiavan di buoi terghi arrostiti :
Oh antica rozzezza! esclamiam tosto
Saporiti bocchini e stomacuzzi

Di molli cenci e di non nata carta.
Ma perchè ammiriam poi,che il seno opponga
Dello Scamandro burrascoso a'flutti
L'instancabile Achille, e portin aste
Si smisurate i capitani greci?

Non consumava ancor muscoli e nervi
Uso di morbidezze : erano in pregio,
Non membroline di zerbini inerti,
Ma petto immenso, muscoloso e saldo
Pesce (1) di braccio, e formidabil lombo.
A' mariti s'offerian le nozze,
gran
Non di locuste ognor cresciute a stento
In guaine d'imbusti: era bel corpo
L'intiero corpo, ed Imeneo guidava
Ai forti sposi, non balene o stringhe,
Ma sostanze di vita, e i bene scossi
Congiungimenti avean prole robusta.
Nasceano Achilli; ed i trastulli primi
Delle mani sfasciate eran le folte

(1) Pesce: così chiamasi uno de' muscoli
braccio.

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