De' Chironi mäestri ispide barbe. Crescean sudando, e l'anime di petti Abitatrici stagionati ed ampli,
Erano anch'esse onnipossenti e grandi. Barbari tempi! in zazzerin risponde Medoro, che intestine ha di bambagia, Vivo non vivo, e d'un bel ghigno adorna La pellicina delle argute labbra.
Chi seguirebbe in questo secol saggio Rusticitadi di silvestre vita?
Scese dal cielo a rischiarar gl' ingegui Florida Voluttade, e dall' Olimpo D' Epicuro negli orti i grati bulbi Pianto di nuovi fortunati fiori.
Per lei siam salvi. Abbiansi laude e no me D'asta e di lotta i secoli remoti ; Io del far buona pelle, e del riposo. Così detto, sonnecchia. Odi, Medoro, Lendin dappoco questa tua si bella E discesa dal cielo Voluttade,
Non la conosci: non è Dea che voglia Molli effemminatezze ed ozio eterno. Come più giova cristallina tazza Piena del sagro dono di Lïeo,
Che brilli e spumi, se il palato in prima Punse l'arida sete, e vie più grata In gargozzo affamato entra vivanda ; Così miglior dietro a' pensieri e all' opre Vien Voluttade. A noi l'olimpio Giove Mandò prima Fatica, e dietro a lei L'altra poscia ne vien, ma zoppa e tarda, A terger fronti, a confortare ambasce.
Nė vien, nè dura, se non dove il s do Zappator volta la difficil terra
E messi coglie; ove l'immenso mare, Senza soffio temer di borea o d'austro, Solca il nocchiero, e mercatante industre Con util laccio nazioni annoda;
E infin dove ogni stirpe alta ed umile L'ingegno adopri e le robuste braccia. Pensier comune, universal fatica Vuole, ed invito, per venir fra noi, Datuite l'alme; ed al romor dell'Arti Scende la Diva, ed il suo carro arresta, Di popoli ristoro. Essa le ciglia Però sdegnata e dispettosa aggrotta Contro a chi fatto è sol peso di letti O di sedili, e fra gli altrui lavori Uso faccia di ciance o di quiete. Nè solo ha cruccio: nel gastiga. Come! Vuoi tu saperlo? Di suo bel sembiante Veste la Noia. Una donzella è questa Che chimerizza e immagina diletti, Nè mai gli trova: un' invisibil peste Che là dov' entra, fa prostender braccia, Shadigliar bocche, ed a volere a un tempo Cupidamente e a disvoler sospinge. Questa or vien teco, e Voluttà ti sembra, Che in tue brame soffiando, le travolve, Qual di state talora in mezzo all' aia Vento fa pula circüir e foglie. Dimmi, se fai sì dilettosa vita, Perchè rizzi gli orecchi, e mille volte Dello scocco dell'ore al servo chiedi,
lulastidito, e di tardanza incolpi Or il carro del Sole, or della Notte? E perchè spesso: oh voi beate, esclami, Teste di plebe! se s'aggira Cecco Citarizzando, o va cantando Bimbo In zucca per le vie cencioso e scalzo? A te stesso noioso, in te non trovi Di che appagarti. T'accompagnan sempre Torpor, languore, e là dove apparisci, Sei tedio, hai tedio: Voluttà ne ride.
Si fa a pregarlo della sua protezione per aver la cattedra di eloquenza nell' Università di Padova.
uando l'empia Fortuna s' attraversa, Foscarini, alto dell' Adria onore, E mio presidio e mio sommo ornamento, Mille forma pensieri uomo infelice, Mille nutre speranze: una gli falla? S'appiglia all'altra, e all'abbattuto spirto Forge alimento, e lo ritiene in corpo. Se speranza si toglie al male uscito Del suo primo giardin seme d'Adamo Che più gli resta, onde conforto ei prenda?
Molte fiate ha già trascorso il Sole Il suo giro diurno, ed han parecchie Notti coperto di atro velo il mondo, Ch'essa mi porge co' suoi vezzi il latte, Lusingbevole balia; ed io consento. Non si prolunghi a discoprir quest'alma Con lunghe ciance: o Foscarini, mira. Su la cortina, la pittura è aperta.
Fama è che dotta e gloriosa lingua,
A dispiegar le sue ricchezze usata, D'alta eloquenza e d' umane arti e belle, In Padova, d'ingegni alta maëstra, Tacerà tosto. Di tali arti il mio, Sia qualunque si vuol, fin da' primi anui Non fu nemico, e tacito rimira
Tra sè quel posto, e moderato il brama. Oh sciocca speme! a dir ti sento: come Puoi tu voler sì chiaro onore? e come Con grave lingua dispiegar del Lazio Sensi eruditi? io so che sempre all'Arno Tuo stil bevesti. E poi, co:ne, uom di gelo, Alto salir, e con focoso ardire
Al pubblico mostrar faccia si fredda? Ha le mie mani ancora acerba sferza Punite, e del mäestro imperioso
Il tuono udii, che aprendomi il cammino, Guidommi un tempo fra latini ingegni; Talchè l'oro dal fango anch' io conobbi, E dettai spesso. Se il mio stil fu grato, Questo io mi tacerò, ch' altri l'udiva. L'intralasciai; questo il ritarda: il copre Ruggine, è ver; ma, come sa la cote Ferro affilar, farlo splendente e bello; Così novo esercizio, in tempo corto, Negl'intelletti lo splendor discopre, Che avea inerzia velato e non curanza. Oh foss'io certo che al bisogno mio Questo solo mancasse! Oh come in breve Ornar saprei tutti i pensier di veste Grande latina, ed imitar l'antico Cattedratico stile, onde si fanno
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