Compiange il proprio stato.
Se mai vedesti in limpid' acqua un pesce Trascorrere, guizzar, girarsi intorno Velocemente, côlto indi a la rete, Contrastando balzar, e steso alfine, Agonizzare e boccheggiar sul lido: Credi, o Vitturi, somigliante ad esso Fatto è l'ingegno mio. Libero un tempo, Vivace, giubilando, aperto mare Lievemente scorrea, fortuna tutto Di rete il cinse: dibattendo ei fece Lunga battaglia per fuggir servaggio : Non giovò; giace, e a poco a poco manca Vigor di vita, onde si stende, e pere Spossato e vinto su l'asciutta arena.
Non poetica fiamma o Genio amico Ha che più lo ravvivi, e per lo giro Di beato argomento intorno il guidi A studiar circostanze, a tragger versi Che faccian bello e grazioso il canto. Malinconico umor sale da' fianchi Qual negro nembo, e con vapori iniqui L'offusca sì, che intorno altro non vede Che immensa oscurità, grandine e lampi.
Sommo Dio, vera luce, infin ch'io veggio Alma tra noi che le belle arti onori, Onorata da quelle, e infin ch'io seco Spesso mi trovo e che benigna ascolti Il mio parlar, perchè timor cotanto Mi farà guerra? oh! nel mio petto un raggio Sorger non dee di graziosa speme ? Tu vedi pur quali amorose cure -T'accendan sempre. È il suo felice albergo Di bell' arti custodia; ovunque movi In esso il piè, greche e romane impronte Miri di storia e antichi usi mäestre. Quivi raccolte, coutro al tempo serba De' più felici e pellegrini ingegni Sacri a Minerva le divine carte; Nè serba sol, ma se ne pasce, e prende Grato alimento, e altrui spesso il concede. Tal è in vita privata. Or l'occhio volgi A' suoi pubblici affari: è padre, è vero Nutritor di mortali. Insin ch' ei siede Al governo di genti, ei la quiete
Seco adduce e la copia; alme discordi Anuoda insieme; e s'ei si parte, ha seco Mille e mille alme, e mille lingue e mille Fan di lui ricordanza: oh statua eterna Ne' petti eretta ed immutabil bronzo!
Quali indizj son questi, o buon Vitturi? Spirto che in talie in si bell' opre agli occhi De' mortali si spiega e si palesa, Qual esser può, se non cortese e grande? Odimi dunque, e sofferente orecchio Porgia colui ch' era già il Gozzi, ed ombra
Ora è di lui che tal nome conserva. Misero me! di non ignota stirpe Nacqui, e d'amici e servi era il mio albergo Ricovero una volta; io ne' primi anni Speranza avea di fortunata vita. In dolce ozio fra' libri i dì passai E gli anni più fioriti; allor credea Dar cultura allo spirto, e a tal guidarlo Che di vergogna al mio nascer non fosse. Questa si bella e si dolce speranza Sfiori del tutto. Fra' miei pochi beni Sol uno è quel che a me pace promette E ricchezza sicura. Io di te parlo, Rigido sasso in cui scolpito è il nome Infelice de' miei; te sol rimiro
Con fiso sguardo, e desïoso piango Che per metu non t'apri. Oh padre,oh padre! Qui ten giaci quïeto, e non soccorri Il desolato figlio, e non lo vedi
Com' ei si affligge e si martira? O braccia Paterne, a me v' aprite e mi accogliete Alfin tra voi, chè tal quiete é a tempo. Qual durezza di vita! Ov'è chi ciancia Che si fragile e breve è il viver nostro? Poco non dura, se fra tanti mali Ostinato si serba; e non so come Alma possa stanziar, dove la strazj Chiovo, spina, tanaglia e orribil fiamma. Mecenate da Dio dato a l'etade Nostra, che più dirò? perchè narrarti Che questa penna e l'intelletto mio, Liberi nati, più volar non ponno
Dove gl'invita naturale affetto? Non è picciolo male ad oncia ad oncia Metter l'alma in bilance, ed il cervello Vendere a dramme; e peggior mal è ancora, Ch'a minor prezzo l'anima e il cervello Vendansi, che di bue carne o di ciacco. Oh mio dolore! oh mia vergogna eterna!
Pur poich'altro sperar più non mi lice, Almen potessi non indegna e alquanto Men oscura opra far, che tragger carte Dal gallico idioma, o ignote o vili, Alla lingua d'Italia. Ho la testura Di grand' opra intrapresa. In quanti lati Scorre eloquenza, io dimostrar volea, Volgarizzando ben eletti esempi Di Latini o di Greci. Anzi una parte Ho dell' opra condotta. A cui non sono Palesi i casi miei, par ch' io l'indugi Oltre il dover; e tu medesmo forse Infingardo mi chiami e tal mi credi. Ahi! si discopra il vero. Io paziente Giobbe, tal nome sofferii molt'anni, Pure tacendo altrui che in vili carte E in ignote scritture io m' affatico Con sudor cotidiano; e già son pieni I banchi de' libraj di mille e mille Fogli e di carte, ammassamento enorme Di mia mano apprestato ai men gentili Popolari intelletti; e perciò tardo Sembro a' migliori che lo ver non sanno. Ma che far posso? Rondine che al nido E a' rondinini suoi portar dee cibo,
Non può per l'aria spaziare invano O dov' essa desia: però che intanto Le bocche vôte de' figliuoli suoi, Dopo molto gridare e ingoiar vento, Sarebber chiuse, e in sepoltura il nido Si cambierebbe a' non possenti corpi. Ma che chiedi importuno? Io non ardisco Di più oltre parlar. Fra le tue lodi Forse non la minor sarebbe un giorno, Che sotto a l'ombra tua tal' opra uscisse; Ch'ei si diria: vedi cultor d'ingegni, Nel giardin di Minerva egli una pianta Quasi del tutto inaridita e secca Si prese in cura, e con amica destra Si la soccorse, che germogli verdi Riprodusse, e di nuovo all'aura sparse Rami con frutti. Ah! troppo bramo, e forse Vuol Fortuna ch'io pera; e non a tempo Son le mie preci, nè giovar mi puole L'alma che a tanti giova, ed a me tante Volte giovò si generosa e bella.
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