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XIV.

A SUA ECCELLENZA

BARTOLOMEO VITTURI

Compiange il proprio stato.

Se mai vedesti in limpid' acqua un pesce
Trascorrere, guizzar, girarsi intorno
Velocemente, côlto indi a la rete,
Contrastando balzar, e steso alfine,
Agonizzare e boccheggiar sul lido:
Credi, o Vitturi, somigliante ad esso
Fatto è l'ingegno mio. Libero un tempo,
Vivace, giubilando, aperto mare
Lievemente scorrea, fortuna tutto
Di rete il cinse: dibattendo ei fece
Lunga battaglia per fuggir servaggio :
Non giovò; giace, e a poco a poco manca
Vigor di vita, onde si stende, e pere
Spossato e vinto su l'asciutta arena.

Non poetica fiamma o Genio amico
Ha che più lo ravvivi, e per lo giro
Di beato argomento intorno il guidi
A studiar circostanze, a tragger versi
Che faccian bello e grazioso il canto.
Malinconico umor sale da' fianchi
Qual negro nembo, e con vapori iniqui
L'offusca sì, che intorno altro non vede
Che immensa oscurità, grandine e lampi.

Sommo Dio, vera luce, infin ch'io veggio Alma tra noi che le belle arti onori, Onorata da quelle, e infin ch'io seco Spesso mi trovo e che benigna ascolti Il mio parlar, perchè timor cotanto Mi farà guerra? oh! nel mio petto un raggio Sorger non dee di graziosa speme ? Tu vedi pur quali amorose cure -T'accendan sempre. È il suo felice albergo Di bell' arti custodia; ovunque movi In esso il piè, greche e romane impronte Miri di storia e antichi usi mäestre. Quivi raccolte, coutro al tempo serba De' più felici e pellegrini ingegni Sacri a Minerva le divine carte; Nè serba sol, ma se ne pasce, e prende Grato alimento, e altrui spesso il concede. Tal è in vita privata. Or l'occhio volgi A' suoi pubblici affari: è padre, è vero Nutritor di mortali. Insin ch' ei siede Al governo di genti, ei la quiete

Seco adduce e la copia; alme discordi Anuoda insieme; e s'ei si parte, ha seco Mille e mille alme, e mille lingue e mille Fan di lui ricordanza: oh statua eterna Ne' petti eretta ed immutabil bronzo!

Quali indizj son questi, o buon Vitturi? Spirto che in talie in si bell' opre agli occhi De' mortali si spiega e si palesa, Qual esser può, se non cortese e grande? Odimi dunque, e sofferente orecchio Porgia colui ch' era già il Gozzi, ed ombra

Ora è di lui che tal nome conserva.
Misero me! di non ignota stirpe
Nacqui, e d'amici e servi era il mio albergo
Ricovero una volta; io ne' primi anni
Speranza avea di fortunata vita.
In dolce ozio fra' libri i dì passai
E gli anni più fioriti; allor credea
Dar cultura allo spirto, e a tal guidarlo
Che di vergogna al mio nascer non fosse.
Questa si bella e si dolce speranza
Sfiori del tutto. Fra' miei pochi beni
Sol uno è quel che a me pace promette
E ricchezza sicura. Io di te parlo,
Rigido sasso in cui scolpito è il nome
Infelice de' miei; te sol rimiro

Con fiso sguardo, e desïoso piango
Che per metu non t'apri. Oh padre,oh padre!
Qui ten giaci quïeto, e non soccorri
Il desolato figlio, e non lo vedi

Com' ei si affligge e si martira? O braccia
Paterne, a me v' aprite e mi accogliete
Alfin tra voi, chè tal quiete é a tempo.
Qual durezza di vita! Ov'è chi ciancia
Che si fragile e breve è il viver nostro?
Poco non dura, se fra tanti mali
Ostinato si serba; e non so come
Alma possa stanziar, dove la strazj
Chiovo, spina, tanaglia e orribil fiamma.
Mecenate da Dio dato a l'etade
Nostra, che più dirò? perchè narrarti
Che questa penna e l'intelletto mio,
Liberi nati, più volar non ponno

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Dove gl'invita naturale affetto?
Non è picciolo male ad oncia ad oncia
Metter l'alma in bilance, ed il cervello
Vendere a dramme; e peggior mal è ancora,
Ch'a minor prezzo l'anima e il cervello
Vendansi, che di bue carne o di ciacco.
Oh mio dolore! oh mia vergogna eterna!

Pur poich'altro sperar più non mi lice,
Almen potessi non indegna e alquanto
Men oscura opra far, che tragger carte
Dal gallico idioma, o ignote o vili,
Alla lingua d'Italia. Ho la testura
Di grand' opra intrapresa. In quanti lati
Scorre eloquenza, io dimostrar volea,
Volgarizzando ben eletti esempi
Di Latini o di Greci. Anzi una parte
Ho dell' opra condotta. A cui non sono
Palesi i casi miei, par ch' io l'indugi
Oltre il dover; e tu medesmo forse
Infingardo mi chiami e tal mi credi.
Ahi! si discopra il vero. Io paziente
Giobbe, tal nome sofferii molt'anni,
Pure tacendo altrui che in vili carte
E in ignote scritture io m' affatico
Con sudor cotidiano; e già son pieni
I banchi de' libraj di mille e mille
Fogli e di carte, ammassamento enorme
Di mia mano apprestato ai men gentili
Popolari intelletti; e perciò tardo
Sembro a' migliori che lo ver non sanno.
Ma che far posso? Rondine che al nido
E a' rondinini suoi portar dee cibo,

Non può per l'aria spaziare invano
O dov' essa desia: però che intanto
Le bocche vôte de' figliuoli suoi,
Dopo molto gridare e ingoiar vento,
Sarebber chiuse, e in sepoltura il nido
Si cambierebbe a' non possenti corpi.
Ma che chiedi importuno? Io non ardisco
Di più oltre parlar. Fra le tue lodi
Forse non la minor sarebbe un giorno,
Che sotto a l'ombra tua tal' opra uscisse;
Ch'ei si diria: vedi cultor d'ingegni,
Nel giardin di Minerva egli una pianta
Quasi del tutto inaridita e secca
Si prese in cura, e con amica destra
Si la soccorse, che germogli verdi
Riprodusse, e di nuovo all'aura sparse
Rami con frutti. Ah! troppo bramo, e forse
Vuol Fortuna ch'io pera; e non a tempo
Son le mie preci, nè giovar mi puole
L'alma che a tanti giova, ed a me tante
Volte giovò si generosa e bella.

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