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gno in quel viaggio, ch'è quanto dire che egli facesse professione di avere amata e lungamente considerata l'Eneide per far poi un così spropositato poema.» Perchè dunque, dice, perchè ha fatto Dante un poema dell' Inferno, del Purgatorio e del Paradiso, se tanto ha letta l'Eneide? Io certo non gli ho insegnato a cominciar con un sogno, una lupa e un leone, e con dividere in parti fra loro ripugnanti e lontane un poema. Il viaggio di Enea, che pur ebbe cotanto sotto gli occhi, è ben diverso dal suo pellegrinaggio in quelle parti si strane

Zatta mia, il Doni non è uomo da conoscere affatto, se un poema dell' Infer no, del Purgatorio e del Paradiso sia diviso in parti ripugnanti e lontane. Di ciò vi do io bene parola, che ne prenderò informazione da qualche ingegno più avvezzo a queste cosc del mio, e vi darò un intero ragguaglio di quanto mi verrà detto da Orazio, o da altra ombra, la quale abbia di tali materie quella profonda cognizione che non ho io, il quale sono andato per lo più seguendo un certo mio lume naturale, e giudicando delle cose piuttosto come uomo ragionevole che scien tifico, e piuttosto come uomo di mondo che dottore.

Intanto dunque io parlerò di una parte sola per confermare la mia conghiettura

che Publio Virgilio non può essere l' autore delle parole da me soprallegate, poichè Dante appunto per aver letta l'Eneide con lungo studio, e per aver con grande amore cercato quel volume, e non per altro scrisse l'Inferno, il Purgatorio e il Paradiso, e Virgilio gl' insegnò appunto a dividere quel poema com'egli lo divise; e glielo fece incominciare da quelle fiere, come lo incominciò, e però Virgilio non potea negarlo, nè schernirlo, nè dolersi ch' egli per suo compagno il prendesse.

La qual cosa non crediate ch' io faccia una gran fatica a dimostrarvela; perciocchè basterà che voi leggiate secento trentaquattro versi del sesto libro dell' Eneide, cominciando dal 264.

Dí, quibus imperium est animarum umbraeque silentes

fino all' 891.

Ille viam secat ad nostros sociosque revisit. E se non aveste col latino molta domestichezza, di che non è da vergognarsi, poichè non l'hanno molti migliori visi del vostro, leggete la traduzione del Caro; che voi troverete il modello dell'argomento e delle divisioni della Commedia di Dante. Nella qual cosa però voglio che voi ammiriate l'ingegno capacissimo del poeta fiorentino, il quale è in tal caso imitatore, o piuttosto emulatore, come lo sono quegli altissimi intelletti, nei

quali un pensiero altrui, quasi picciola favilla di fuoco, accende gran fiamma che per tutte le parti si allarga, o quasi piccioletta ghianda in buon terreno caduta fa selva di nobilissime querce. Io non voglio ora scrivervi un quaderno a provarvi cosa che potete voi medesimo vedere con gli occhi vostri ; ma solamente vi aggiungerò che ivi trove rete nel principio le fiere, come le trovate nel primo Canto di Dante, salvo che il nostro poeta in altre fiere le cambiò, come più convenienti a' tempi suoi e alle sue circostanze. Oh! questo passo si che io ve lo stendo qui, perchè esso non è lungo, e perchè ho in animo di farvi poi sopra quattro ciance, onde gitto sopra esso il fondamento di quello che intendo di chiacchierare. Eccovi dunque nell' Eneide al luogo citato le fiere: Multaque praeterea variarum monstra ferarum.

Ma lasciamo stare il latino a Fidenzio :
Molte oltre a ciò vi son di varie fere
Mostruose apparenze. In su le porte
I biformi Centauri, e le biformi
Duc Scille. Briareo di cento doppi,
La Chimera di tre, che con tre bocche
Il foco avventa. Il gran serpe di Lerna
Con selle teste. Con tre corpi umani
Eriloe e Gerion, e con Medusa
Le Gorgoni sorelle, e l'empie Arpic
Che son vergini insieme, augelli e cagne.

Io non credo che Virgilio si possa mai dimenticare di aver posto nel principio del viaggio infernale che fa Enca tutti questi mostri; e negare che Dante non imparasse da lui a cominciare il suo da una lupa e da un lione, o per meglio dire da una lonza, da un lione e da una lupa che con tutte tre queste bestie cominciò Dante, e non le pose all'uscio dell' Inferno, come dice l' Autore delle Lettere, ma anzi all'incontro le si fa discendere dal monte, e attraversare il cammino del monte sulla cui sommità sta il sommo bene. Ho detto che sopra queste tre fiere volea farvi quattro ciance, ma anche di qua ci stanchiamo di scrivere quanto voi di là, e quando anche io non fossi stanco di scrivere, voi lo sareste di leggere. Perciò buon giorno, attendete un'altra lettera che questa è finita.

LETTERA TERZA

Se io fossi oggi di là, come sono negli Elisj, vorrei una buona mancia da voi, avendomi stamattina il caso fatto sentire a parlare uno a proposito di Dante e del poema di lui, che quando ve lo dirò so che ne avrete una gran meraviglia. Terminata questa lettera, voglio stendere il ragionamento che avenimo insieme,

in forma di dialogo, e spero che ne sa rete contento. Fra tanto vi scriverò intorno alle tre fiere nominate da Dante nel principio del suo poema; e mentre che leggerete quanto vi scrivo a questo proposito, state attento poichè troverete in qual forma nacque l'occasione del dialogo che vi manderò dopo la pro sente lettera.

Lonza, leone, lupo, diceva in passeggiando, sono le fiere che a Dante si presentano nel principio del suo viaggio. Veramente io non trovo che l'invenzione sia degna di biasimo, che avendo egli così naturalmente, per la vita umana intralciata fra mille affanni e difficoltà, immaginato una mistica selva, un deserto, una valle, un monte, gli venisse per naturalissima e regolatissima conseguenza alla fantasia che gli abitatori di quella boscaglia e di que' dirupi fos sero fiere, piuttosto che altre apparizioni più studiate e stiracchiate con certe leggi rettoriche di buon gusto moderno. Mentre ch'io andava così camminando e fantasticando, mi trovai vicino ad un molto verde e bellissimo olmo, che allargava le sue braccia per un lungo tratto di aria; onde mi vi posi sotto a sedere e posto il libro che mi avete mandato così sopra pensiero sul terreno al mio fianco, seguitava fra me a dire; tanti

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