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ospiti, ai suoi parenti, ai suoi amici, ed a' suoi nimici. Nè vien egli cercando di occultarli o di travisarli sotto nomi tolti ad imprestito. Ma in semplici parole egli appella col vero nome, egli dipinge al vivo tutti quegl' individui ben conosciuti. Egli ragiona insieme con loro; rammemora ad essi l'antica loro amicizia; e sempre cerca di confondere i suoi sentimenti coi loro. Imparzialmente egli nota la mercede di cui pensa che la loro condotta gli abbia fatti meritevoli; nel tempo che, con una singolare mistura di umana pietà, nè la colpa loro, nè la punizione che ne ricevono nell' Inferno lo rattengono dall'onorarli, dall'aprir loro il suo cuore, e dal confortarli colle sue lagrime.... In quelli che meritarono che Iddio pesasse la loro vita contro i loro peccati, Dante ha generalmente infuso un gagliardo desiderio di fama. La lusinga di essere nominati dal poeta al suo ritorno tra i vivi, sospendeva per un momento il senso dei loro tormenti. I magnanimi, benchè stessero espiando il danno e l'onta delle colpe più gravi, gli raccomandavano tuttavia di narrare al mondo che gli aveva veduti. Ciò sempre ei promette; e spesso, per indurli

a favellare seco lui liberamente, impegna la sua fede che non verranno dimenticati. Soltanto le ombre di quei che vivendo si attuffarono in continue scelleratezze e nell'infamia, gli occultano i nomi loro. Egli è nelle età di mezzo tra la barbarie e la civiltà, che gli uomini sentono più fortemente quel desiderio di vedere sottratti alla dimenticanza i loro nomi. Le passioni in quel periodo non hanno ancora perduto alcuna parte del loro vigore, e sono mosse dall'impulso assai più che dal calcolo. È cosa nota d'altronde, che le forti passioni de'tempi meno inciviliti traggono gli uomini alle grandi virtù, ai gran delitti, alle grandi calamità; e per tal guisa formano i caratteri che meglio si convengono alla poesia. Dante non aveva che a volger gli occhi d'intorno a sè, per discoprire caratteri di questa tempra. Ei li rinvenne già belli e formati pel suo proposito, senza che gli facesse mestiero di aggiugnere un solo tratto più risentito, di propria invenzione. Il raffinamento non aveva ancora prodotto quella rassomiglianza di fisionomia individuale nella gran massa d'una nazione. L'originalità degl'individui, rara al presente, pericolosa, ridicola ed affettata al più spesso,

era come nuda in allora e da nessun velo coperta.

TOTILA

S. 2. Era Firenze da principio un sobborgo di Fiesole, antica città degli Etruschj; e perciò ignorasi l'epoca della sua fondazione. Il Dittatore Lucio Silla segnava il primo le mura della nuova città lungo le ridenti rive dell'Arno, a'piedi degli Appennini, e la facea colonia romana. Jacopo Nardi, nella vita d'Antonio Giacomini, così l'origini prime vantava della sua patria:,, La piccola città di Fio,, renza, colonia dei Romani, fu da Au"gusto edificata quasi in grembo dell'antichissima città di Fiesole, appiè del monte, in una piccola parte di » quel contado, ristretta in breve giro da' confini delle città vicine più antiche e potenti di lei. Nondimeno tosto che la declinazione del romano imperio, e all' altre e a lei fu lecito di respirare, essa con le proprie armi e col sangue de'suoi cittadini si guadagnò la libertà, allargò i confini; e talmente venne al di sopra de' suoi » vicini, che soggiogandoli o facendoli

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,, diventare suoi cari cittadini, fece in "ispazio di poco tempo assai gagliardo fondamento alla sua futura grandez„za, incorporandosi eziandio gli abitatori della medesima città di Fiesole. Il Villani crede Pompeo uno dei distruggitori di Fiesole, e degli edificatori di Firenze; del quale avviso mostrasi pur Dante in que'versi: Sott'esso giovanetti trionfaro Scipione e Pompeo; ed a quel colle - Sotto 'l qual tu nascesti, parve amaro (1). Due miglia lontano da Firenze, in mezzo alle più belle villeggiature, veggionsi ancora avanzi di grosse mura d'un castello e d'un tempio cangiato in cimiterio, rovine di Fiesole. Una favolosa tradizione fece credere agli stessi Fiorentini che la loro città fosse stata spianata da Attila, riedificata da Carlo Magno. Il Boccaccio così ne scrivea nella vita di Dante. ,, Certissimo abbiamo che Attila, crudelissimo re e generale guastatore di tutta Italia, in cenere la ridusse ed in rovina; e in cotal maniera oltre al trecentesimo anno si crede che dimorasse. Dopo il qual tempo, essendo, non senza cagione, di Grecia il Romano im

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(1) Par. C. VI. 52.

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„, perio in Gallia translatato, e alla imperiale altezza elevato Carlo Magno, in ,, quel tempo clementissimo re de'Franceschi, allora più fatiche passate, credo da divino spirito mosso, alla redificazione della desolata città lo imperiale animo dirizzò; e da quei medesimi che prima conditori n'erano stati, comechè in piccolo cerchio di mura „ quanto potè, simile a Roma la fece redificare ed abitare, raccogliendovi dentro nondimeno quelle poche reliquie che vi si trovarono de' discendenti degli antichi scacciati. „, Dante per non contrapporsi, seguì forse poetando la generale opinione. - Quei cittadin che poi la rifondarno Sovra 'l cener che d'Attila rimase (1). Nel 452 Attila distrusse bensì Aquileja, e diè il guasto alla Lombardia, onde molti riparatisi su la costa adriatica originarono Venezia; ma osò farglisi incontro a Pontemolino presso Ostiglia papa Leone, ed ottenne ch'egli s'allontanasse. Ripassato il Danubio, morì Attila del 454, nell' ebrietà d'un banchetto e seco trasse la caduta dell'impero degli Un

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(1) Inf. C. XHI. 148.

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