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nino, di val di Monica, dell'alpi trentine, e del Tirolo. Nel C. XII. vuolsi paragonata la scesa d'un burrato ad una vasta congerie di grandi macigni, che vedesi presso il villaggio Marco, sotto Lizzana, un' ora vicino di Rovereto, chiamata da' paesani Slavino di Marco, rimasta per la caduta d'un gran monte, seguita probabilmente l'anno 883. Da altri vuolsi che Dante ivi parli invece, della rovina che si trova di là da Rovereto, due miglia e mezzo in circa detta da'paesani il Cengio rosso, e dov'è ora il castello della Pietra; perchè il Cengio è un monte altissimo, parte di cui è rovinata, e parte resta ancora, come appunto pare che Dante supponga. Frattanto si ha da ciò, che dovunque esulando peregrinasse, intendeva pur sempre assiduo alla grand'opera.

Se si presti ascolto a Domenico Aretino, Dante rimase per più anni nel Casentino presso que' conti: indi per quattro anni continui dimorò in Verona; e finalmente si trasferì pel breve resto de' suoi giorni a Ravenna. Guido Novello de' Polentani, signore di Ravenna letto avea per avventura nell' Inf. C. V. 73, l'amore e la pena della sua zia Francesca, ed avea di che

sperarla compianta perpetuamente per la tanta pietà di quel racconto. Sommamente ne' liberali studi ammaestrato qual era, al saggio dire del Costa, il rimeritare e l'onorare i sapienti stimava principal parte di giustizia. Mandò quindi lettere e messi a Dante offerendogli ospizio ed amicizia: e lo accolse di fatti; e lo animò con assai piacevoli conforti. Quel Genovese che andò a Ravenna per aversi dallo Alighiero un consiglio, se sia vero ciò che narra il Sacchetti nell'ottava delle sue Novelle, il conobbe così, che più di stette in casa sua, pigliando grandissima dimestichezza per tutto il tempo che vissero insieme. Dune que Dante ebbe in Ravenna una casa, ove potere accogliere un ospite : dunque visse più che un anno in Ravenna; dunque concedeva anche vecchio, che altri entrasse seco lui in famigliarità. Già ne pare vederlo entrare talvolta ne' recessi di quella pineta, e al trarre di scirocco, descrivere lo sbattimento de' rami, ed il romor delle piante. Potè così sotto la protezione del grazioso signore ivi farsi più scolari in poesia, e più amici; fra quali si distinse un ser Pietro di messer Giardino, divenuto po scia famigliare al Boccaccio.

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Nella fine del 1319 Dante si trasferì di nuovo a Verona per rivedere i suoi figliuoli, ivi fermatosi fino da quando s'era egli ricoverato in corte degli Scaligeri. (1) Tenne allora Dante in quella chiesa di s. Elena una disputazione o conclusione filosofica sopra i due elementi, acqua e terra; se pur non è una impostura un libretto stampato in Venezia nel 1508, che ha questo titolo: Quaestio florulenta ac perutilis,de duobus elementis aquae et terrae tractans, nuper reperta, quae olim Mantuae auspicata, Veronae vero disputata et decisa, ac manu propria scripta a Dante florentino, poeta clarissimo, quae diligenter et accurate correcta fuit per Rev. Magistrum Joan. Benedictum Moncettum de Castilione Aretino Regentem Patavinum, Or

(1) Non ch' io voglia contendere che il Poeta, poco inuanzi di morire, non abbia riveduto Cane della Scala in Verona, e forse andando e tornando dalla legazione, che intorno a quel tempo, al dire degli Storici Ravennati, e del vecchio Villani (V. Pelli Mem. pag. 115.) gli fu commessa presso i Veneziani da Guido Da Polenta. Anzi taluni attribuiscono a Dante certa tesi da lui sostenuta a mezzo l'anno 1320 in Verona: ma va tenuta con mol. ti per impostura indegna di esame (Tirab. Stor. T. V. p. 485.)

FOSCOLO

dinis eremitarum divi Augustini, sacraeque theologiae doctorem excellentissimum. Dante avea probabilmente perduta la grazia di Cane, quando dedicandogli la cantica del Paradiso, così gli scrivea: Non ho trovato convenirsi all' eminenza vostra la Commedia tutta, ma la cantica più nobile di essa, onorata del titolo di Paradiso: questa con la presente epistola, quasi sotto propria inscrizione dedicatavi intitolo a voi, a voi porgo, a voi raccomando. Volle tuttavia onorar Cane di tanto elogio, forse perchè gli stava a cuore di non avere avverso quel principe, già divenuto formidabile e potentissimo, per opera del quale sperava di ritornare alla patria desiderata; o più veramente per lasciare un nuovo monumento della sua gratitudine. Negli ultimi anni della sua vita inviò egli a Firenze quella dolorosa canzone in cui tante sentenze di sdegno e d'amore racchiuse; ingiungendo poi a que' suoi versi, che dentro la terra, per cui egli piange, vadano arditi e fieri, appunto perchè li guida amore (1).

(1) Dante non aveva mai deposta la speranza di tornare in patria: lo afferma in uno degli ultimi canti del suo poema Può intendersi che sperasse potersi, a riguardo dell'applandito poema, piegar gli

ANEDDOTI

6. 2. Andando Dante per alcuna sua faccenda, udì un fabbro che al suono dell'incudine cantava sioccamente una canzone di lui, smozzicando ed appic

animi de' suoi concittadini a richiamarlo dall'esilio; e può intendersi che ciù sperasse dal patrocinio di qualche potente signore, e spezialmente di Can Grande, signore di Verona. LOMBARDI

E Dante stesso, nella lettera dove si rifiuta di ripatriare a vili condizioni « Via non è questa che mi rimeni alla patria; bensì, quand' altra mi sia spianata da voi, o poscia da altri « La lettera nour ha data: pur mi sovviene d'aver letto, com' altri inferi non so donde, che i Fiorentini per si altera risposta gli fulminarono la quarta minaccia di arderlo vivo. Gli anni a ogni modo de' due ultimi bandi stanno fra il 1314. e il 1318, mentre le zuffe quasi perpetue fra il Tagliamento è l'Adige favorivano i Ghibellini. Pare che allora Firenze, a scemarsi nemici in Lombardia, richiamasse molti de' suoi fuorusciti sotto condizioni alle quali la calamità di essere senza certezza di pane e di sepoltura, li stringeva ad arrendersi. Che se non imitarono Dante, ei doveva, parmi, più presto compiangerli che tacciarli, com'ei fà, di viltà Da che quegli esuli non avevano nè la sua tempra, në ì suoi timori, nè le sue speranze.

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