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cando i versi in guisa, che a Dante pareva ricevere grandissima ingiuria. Onde entrato nella bottega cominciò a gettar per la via le masserizie e i ferramenti di quel goffo. Del che maravigliandosi il fabbro e dicendogli, che diavol faceva, e il fabbro disse: fo l'arte mia, e voi guastate i miei ferri, gettandoli per la via. Al che Dante rispose: se tu non vuoi che io guasti le cose tue, non guastar tu le mie. Disse il fabbro: o che vi guast' io? Disse Dante: tu canti il mio libro e non lo di' com' io lo feci. Io non ho altr' arte; e tu me la guasti.

Un Genovese sparuto, bene scienzia to, domandò Dante come potesse entrare in amore a una bella donna di Genova, la quale non che l'amasse non mai gli occhi in verso lui tenea, e più tosto fuggendolo in altra parte li volgea. Dante, veggendo la sua sparuta vista, disse: Messere, di quello che al presente mi domandate, non ci vege gio altro che un modo: e questo è, che voi sapete che le donne gravide hanno sempre vaghezza di cose strane. E però converrebbe che questa donna che cotanto amate, ingravidasse. Essendo gravida, come spesso interviene ch'ell'han

no vizio di cose nuove, così potrebbe intervenire ch' ella avesse vizio di voi: e a questo modo potreste venire ad effetto del vostro appetito. Per altra forma sarebbe impossibile.

Dante tassò destramente di bugiardo un tale che nel desinare, riscaldato dal vino e dal favellare, sudando mentiva. Venne questi in sentenziare, che chi dice il vero non s' affatica. Soggiunse Dante: io mi meravigliava ben del tuo sudore.

Dante domandò un contadino che ora fosse: egli rozzamente rispose, ch'era ora d'abbeverar le bestie. Dante ripigliò: tu che fai?

Stava Dante nella chiesa di s. Maria Novella appoggiato ad un altare tutto solo, forse col pensiero volto al poetare. A lui accostatosi un ser Sacciuto, tentò indarno più volte di tirarlo seco a ragionamento. Dante, perduta finalmente la pazienza, volto a quel cotale gli disse: avanti che io risponda alle tue domande, vorrei che prima tu mi chiarissi qual tu creda che sia la maggior bestia del mondo. A lui quegli rispose che per l'autorità di Plinio credeva, la maggior bestia terrestre essere l'elefante. Dante gli soggiunse: o

elefante, dunque non dar noja. E senz'altro dire, da lui si partì.

In Siena, essendosi abbattuto a trovare nella bottega d'uno speziale un libro da lui fino allora inutilmente cercato, appoggiato a un banco, si pose a leggerlo con tale attenzione, che da nona sino a vespro si stette ivi immobile , senza punto avvedersi dell' immenso strepito che menava nella contigua strada uno accompagnamento di nozze, che di colà venne a passare.

In Verona, passando egli davanti a una porta, dove più donne sedevano una di quelle disse all' altre vedete voi colui che va per l'inferno, e torna quando a lui piace, e qua su reca novelle di quelli che laggiù sono? A quella una di loro rispose semplicemente: in verità tu dei dire il vero. Non vedi tu com' egli ha la barba crespa e il color bruno, per lo caldo e per lo fumo che è laggiù? Dante, udite quelle parole sorrise alquanto, e passò avanti,

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Essendo Dante alla mensa di Cane della Scala, uno fanciullo celatamente nicchiato sotto le tavole raccogliea in mucchio a'piè di Dante l'ossa tutte spolpate e gittate. Partito il ragazzo, e levate le tavole, messer Cane fingendo le

meraviglie delle tante ossa così raccolte, voltato verso gli altri: per certo, disse, messer Dante è gran divoratore di carni. Vedete l'ossa ch'egli ha a'piedi. Dante, conosciuto il giuoco, pronta diede questa risposta: Signore, s'io fossi Cane, non vedresti tant'ossa.

Tra la turba degl'istrioni e dell'altre persone festevoli che lo Scaligero tenea in corte, uno essendone che riusciva a tutti sommamente caro, disse un giorno in presenza di molti cortigiani Cangrande a Dante come sta egli mai, che costui, balordo melenso, sia grato a tutti: e tu reputato sapiente, grato non sia? Al che Dante subitamente: non è maraviglia. La somiglianza e l'uniformità de'costumi generar sogliono la grazia e l'amore. Se fu amara la risposta, era ben anche impropria la dimanda (1).

(1) Le provocazioni del signor di Verona, e le acri risposte di Dante, io le presumerei vere in parte, quand'anche non fossero state mai ricordate. La natura nega all'uomo potente e al grande ingegno di vivere pacificamente sociabili: e la loro guerra è perpetuata dalla umiliazione reciproca. Bensi, ogni qual volta anche il bisogno d'ajuto è reciproco, la guerra rimanesi tacita.

FOSCOLO

MORTE DI DANTE

§. 3. Minacciando la repubblica di Ve

nezia di muover guerra ai Polenziani, quel Dante che tanto mal soddisfatto era della sua prima ambasciata

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ricusò per amore del suo Guido V, di sostener la seconda: ma non avendo potuto vincere gli ostinati animi di quell'ambizioso senato, lasciata la via del mare, che per cagione della guerra era piena di pericoli, ritornò per le disabitate e mal comode vie de' boschi. L'ultimo suo dì che alle tante sue amaritudini doveva por fine, lo aspettava in Ravenna. Ivi sconsolato del non recare alcuno frutto di tale sua imbasciata in prò dell' amico e mecenate ammalò e il giorno 13 di settembre del 1321, nella non colma età d'an. ni 56 e mesi cinque rendette l' affaticato ed umiliato spirito al Creatore. Ben è vero che E felice colui che trova il guado Di questo alpestro e rapido torrente - Ch'ha nome vita — (1):

:

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(1) Petrarc. Trionf. della Divinità,

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