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Oh come soavissimi diffusi

Moti per l'ossa mi serpeano! oh come Mille nell'alma instabili, confusi Pensieri si volgean! qual tra le chiome D'antica selva zefiro scorrendo,

Un lungo, incerto mormorar ne prome.
E mentre io taccio, e mentre io non contendo,
Che dicevi, o mio cor, che si partia
Quella per che penando ivi e battendo?
Il cuocer non più tosto io mi sentia
Della vampa d'amor che il venticello
Che l'aleggiava volossene via.

Senza senno io giacea sul di novello,
E i destrier che dovean farmi deserto,
Battean la zampa sotto al patrio ostello.
Ed io timido e cheto ed inesperto
Vêr lo balcone al buio protendea
L'orecchio avido e l'occhio indarno aperto,
La voce ad ascoltar, se ne, dovea

Di quelle labbra uscir, ch'ultima fosse;
La voce, ch'altro il cielo, ahi' mi togliea.
Quante volte plebea voce-percosse

Il dubitoso orecchio, e un gel mi prese,
E il core in forse a palpitar si mosse!
E poi che finalmente mi discese

La cara voce al core, e de' cavai
E delle rote il romorio s'intese
Orbo rimaso allor, mi rannicchiai
Palpitando nel letto, e chiusi gli occhi,
Strinsi il cor con la mano e sospirai.
Poscia traendo i tremuli ginocchi
Stupidamente per la muta stanza,

Ch'altro sarà, dicea, che il cor mi tocchi? Amarissima allor la ricordanza

Locommisi nel petto e mi serrava

Ad ogni voce il core, a ogni sembianza.

E lunga doglia il sen mi ricercava,
Com'è quando a distesa Olimpo piove
Malinconicamente e i campi lava.
Ned io ti conoscea, garzon di nove

E nove soli, in questo a pianger nato Quando facevi, Amor, le prime prove. Quando in ispregio ogni piacer, nè grato M'era degli astri il riso, o dell'aurora Queta il silenzio, o il verdeggjar del prato, Anche di gloria amor taceami allora

Nel petto, cui scaldar tanto solea

Che ci beltade amor vi fea dimora. Nè gli occhi ai noti studi io rivolgea, E queli m'apparian vani per cui Vano ogni altro desir creduto avea. Deh come mai da me si vario fui,

E tanto amor mi tolse un altro amore?
Deh quano, in verità, vani siam nui!
Solo il mio tor piaceami, e col mio core,
In un peretne ragionar sepolto,

Alla guardia seder del mio dolore.
E l'occhio a terra chino o in sè raccolto,
Di riscontrará fuggitivo e vágo

Nè in leggiado soffria nè in turpe volto: Chè la illibata, 1 candida imago

Turbare egli tenea pinta nel seno,
Come all'aure s turba onda di lago.
E quel di non aver goduto appieno
Pentimento che lanima ci grava,
E il piacer che 'passò cangia in veleno,
Per li fuggiti di mi stimolava

Tuttora il sen: che la vergogna il duro
Suo morso in queso cor già non oprava.
Al cielo, a voi, gentil anime, io giuro
Che voglia non m'e trò bassa nel petto,
Ch'arsi di foco intaninato e puro.

Vive quel foco ancor, vive l'affetto,
Spira nel pensier mio la bella imago
Da cui, se non celeste, altro diletto
Giammai non ebbi, e sol di lei m'appago.

XI.

IL PASSERO SOLITARIO.

D'in su la vetta della torre antica Passero solitario, alla campagna Cantando vai finchè non more il gorno; Ed erra l'armonia per questa valle. Primavera d'intorno

Brilla nell'aria e per li campi esulta,
Si ch'a mirarla intenerisce il core.
Odi greggi belar, muggire armenti;
Gli altri augelli, contenti, a gara insieme
Per lo libero ciel fan mille gii,.
Pur festeggiando il lor tempe migliore:
Tu pensoso in disparte il tuto miri;
Non compagni non voli,

Non ti cal d'allegria, schiv gli spassi;
Canti e cosi trapassi

Dell'anno e di tua vita il più bel fiore.
Ohimè, quanto somiglia

Al tuo costume il mio! Solazzo e riso,
Della novella età dolce Amiglia,

E te german di giovineza, amore,
Sospiro acerbo de' provtti giorni,

Non curo, io non so ome; anzi da loro
Quasi fuggo lontano;

Quasi romito e stran

Al mio loco natio,

Passo del viver mio la primavera.
Questo giorno ch'omai cede alla sera
Festeggiar si costuma al nostro borgo.
Odi per lo sereno un suon di squilla,
Odi spesso un tonar di ferree canne
Che rimbomba lontan di villa in villa.
Tutta vestita a festa

La gioventù del loco

Lascia le case e per le vie spande;
E mira ed è mirata e in cor s'allegrá.
Io solitario in questa

Rimota parte alla campagna uscendo,
Ogni diletto e gioco

Indugio in altro tempo: e intanto il guardo
Steso nell'aria aprica

Mi fere il Sol che tra lontani monti,

Dopo il giorno sereno,

Cadendo si dilegua e par che dica
Che la beata gioventù vien meno

Tu, solingo augellin, venuto a sera
Del viver che daranno a te le stelle,
Certo del tuo costume

Non ti dorrai; chè di natura è frutto
Ogni vostra vaghezza.

A me se di vecchiezza
La detestata soglia

Evitar non impetro,

Quando muti questi occhi all'altrui core,
E lor fia vôto il mondo, e il dì futuro
Del di presente più noioso e tetro,

Che parrà di tal voglia?

Che di quest'anni miei? che di me stesso?

Ahi! pentirommi e spesso,

Ma sconsolato volgerommi indietro.

XII.

L'INFINITO.

Sempre caro mi fu quest'ermo colle
E questa siepe che da tanta parte
Dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando interminati
Spazi di là da quella e sovrumani
Silenzi e profondissima quiete

Io nel pensier mi fingo, ove per pocò
Il cor non si spaura. E come il vento
Odo stormir tra queste piante, io quello
Infinito silenzio a questa voce

Vo comparando, e mi sovvien l'eterno
E le morte stagioni e la presente
E viva, e suon di lei. Così tra questa
Immensità s'annega il pensier mio,

E il naufragar m'e dolce in questo mare.

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Dolce e chiara è la nottte e senza vento, E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti Posa la luna e di lontan rivela Serena ogni montagna. O donna mia, Già tace ogni sentiero, e pei balconi

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