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Rara traluce la notturna lampa:
Tu dormi, chè t'accolse agevol sonno

Nelle tue chete stanze; e non ti morde
Cura nessuna; e già non sai nè pensi
Quanta piaga m'apristi in mezzo al petto.
Tu dormi: io questo ciel, che si benigno
Appare in vista, a salutar m'affaccio
E l'antica natura onnipossente,

Che mi fece all'affanno. A te la speme
Nego, mi disse, anche la speme; e d'altro
Non brillin gli occhi tuoi se non di pianto.
Questo di fu solenne: or da'trastulli
Prendi riposo; e forse ti rimembra

In sogno a quanti oggi piacesti e quanti
Piacquero te: non io, non già ch'io speri,
Al pensier ti ricorro. Intanto io chieggo
Quanto a viver mi resti, e qui per terra
Mi getto e grido e fremo. Oh giorni orrendi
In cosi verde etadel Ahi! per la via
Odo non lunge il solitario canto
Dell'artigian che riede a tarda notte,
Dopo i solazzi, al suo povero ostello;
E fieramente mi si stringe il core,
A pensar come tutto al mondo passa
E quasi orma non lascia. Ecco è fuggito
11 di festivo, ed al festivo il giorno
Volgar succede, e se ne porta il tempo
Ogni umano accidente. Or dov'è il suono
Di que' popoli antichi? or dov'è il grido
De' nostri avi famosi e il grande impero
Di quella Roma e l'armi e il fragorio
Che n'andò per la terra e l'oceáno?
Tutto è pace e silenzio, o tutto posa
Il mondo, e più di lor non si ragiona.
Nella mia prima età, quando s'aspetta

Nè guidasse per gioco, i lupi al fonte
Il pastorel; ma di suo fato ignara
E degli affanni suoi, vota d'affanno
Visse l'umana stirpe; alle segrete
Leggi del cielo e di natura indutto
Valse l'ameno error, le fraudi, il molle
Pristino velo; e, di sperar contenta,
Nostra placida nave in porto ascese.
Tal fra le vaste californie selve
Nasce beata prole a cui non sugge
Pallida cura il petto, a cui le membra
Fera tabe non doma; e vitto il bosco,
Nidi l'ultima rupe, onde ministra
L'irrigua valle, inopinato il giorno

Dell'atra morte incombe, Oh contra il nostro

Scellerato ardimento inermi regni

Della saggia natura! I lidi e gli antri
E le quiete selve apre l'invitto
Nostro furor; le violate genti
Al peregrino affanno, agl' ignorati
Desiri educa; e la fugace, ignuda
Felicità per l'imo sole incalza 8.

IX.

ULTIMO CANTO DI SAFFO.

Placida notte, e verecondo, raggio Della cadente luna; e tu che spunti Fra la tacita selva in su la rupe, Nunzio del giorno; oh dilettose e care, Mentre ignote mi fur l'erinni e il fato.

Sembianze agli occhi miei; già non arride
Spettacol molle ai disperati affetti.
Noi l'insueto allor gaudio ravviva
Quando per l'etra liquido si volve
E per li campi trepidanti il flutto
Polveroso de' noti, e quando il carro,
Grave carro di Giove, a noi sul capo
Tonando il tenebroso aere divide.
Noi per le balze e le profonde valli
Natar giova tra'nembi, e noi la vasta
Fuga de' greggi sbigottiti o d'alto
Fiume alla dubbia sponda

Il suono e la vittrice ira dell'onda.

Bello il tuo manto, o divo cielo, e bella Sei tu, rorida terra. Ahi! di cotesta Infinita beltà parte nessuna

Alla misera Saffo i numi e l'empia
Sorte non fenno. A'tuoi superbi regni
Vile, o Natura, e grave ospite addetta,
E dispregiata amante alle vezzose
Tue forme il core e le pupille invano
Supplichevole intendo. A me non ride
L'aprico margo e dall'eterea porta
Il mattutino albor; me non il canto
De' colorati augelli, e non de' faggi
Il murmure saluta: e dove all'ombra
Degl' inclinati salici dispiega
Candido riyo il puro seno, al mio
Lubrico piè le flesṣuose ninfe
Disdegnando sottragge

E preme in fuga l'adorate spiagge.

Qual fallo mai, qual si nefando eccesso Macchiommi anzi il natale, onde si torvo Il ciel mi mosse e di fortuna il volto? In che peccai bambina, allor che ignara

Di misfatto è la vita, onde poi, scemo
Di giovinezza e disfiorato, al fuso
Della indomita Parca si volvesse
Il ferrigno mio stame? Incaute voci
Spande il tuo labbro: i destinati eventi
Move arcano consiglio. Arcano è tutto,
Fuor che il nostro dolor. Negletta prole
Nascemmo al pianto, e la ragione in grembo
De' celesti si posa. Oh core, oh speme
De' più verd' anni! Alle sembianze il Padre,
Alle amene sembianze eterno regno
Diè nelle genti; e per virili imprese,
Per dotta lira o canto,

Virtù non luce in disadorno ammanto
Morremo; il velo indegno a terra sparto,
Rifuggirà l'ignudo animo a Dite,

E il crudo fallo emenderà del cieco
Dispensator de' casi. E tu cui lungo
Amore indarno e lunga fede e vano
D'implacato desio furor mi strinse,
Vivi felice, se felice in terra
Visse nato mortal. Me non asperse
Del soave licor del doglio avaro

Giove, poi che perir gl' inganni e il sogno

Della mia fanciullezza. Ogni più lieto

Giorno di nostra età primo s'invola.

Sottentra il morbo e la vecchiezza e l'ombra

Della gelida morte. Ecco, di tante

Sperate palme e dilettosi errori,

Il Tartaro m'avanza; e il prode ingegno
Han la tenaria diva

E l'atra notte e la silente riva.

1

X.

IL PRIMO AMORE.

Tornami a mente il di che la battaglia
D'amor sentii la prima volta, e dissi:
Oimè, se quest'è amor, com'ei travaglia!
Che gli occhi al suo tutt'ora intenti e fissi,
Io mirava colei ch'a questo core
Primiera il varco ed innocente aprissi.
Ahi come mal mi governasti, amore!
Perchè seco dovea si dolce affetto
Recar tanto desio, tanto dolore?
E non sereno e non intero e schietto,
Anzi pien di travaglio e di lamento
Al cor mi discendea tanto diletto?
Dimmi, tenero core, or che spavento,

Che angoscia era la tua fra quel pensiero
Presso al qual t'era noia ogni contento?
Quel pensier che nel di che lusinghiero
Ti si offeriva nella notte, quando
Tutto queto parea nell'emisfero :
Tu inquieto, e felice e miserando,
M'affaticavi in su le piume il fianco,
Ad ogni or fortemente palpitando.
E dove io tristo ed affannato è stanco
Gli occhi al sonno chiudea, come per febre
Rotto e delirio il sonno venia manco.
Oh come viva in mezzo alle tenébre
Sorgea la dolce imago, e gli occhi chiusi
La contemplavan sotto alle palpebre!

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