E com'arse la guerra, appo il signore Suo ritornato, dimorò tra' fanti E sotto tende, insin che tutto il campo Dal correr presto procacciò lo scampo.
Ora ai compagni, ricercando a quale Fosse in nome comun l'uffizio imposto Che del campo de' granchi al generale Gisse oratore e che per gli altri tosto D'ovviar s'ingegnasse a novo male, Nessun per senno e per virtù disposto Parve a ciò più del conte, il qual di stima Tenuto era da tutti in su la cima.
Cosi da quelle schiere, a prova eretto L'un piè di quei dinanzi, all'uso antico, Fu, per parer di ciascheduno, eletto Messagger dell'esercito al nemico.
Nè ricusò l'uffizio, ancor ch'astretto
Quindi a gran rischio; in campo ostil, mendico D'ogni difesa, andar fra sconoscenti D'ogni modo e ragion dall'altre genti. E sebben lassa la persona e molto Di posa avea mestier, non però volle Punto indugiarsi al dipartir: ma, côlto Brevissimo sopor su l'erba molle, Sorse a notte profonda e, seco tolto Pochi servi de' suoi, tacito il colle Lasciando tutto e sonnolento, scese E per l'erma campagna il cammin prese.
Più che mezze oramai l'ore notturne Eran passate, e il corso all'oceano Inchinavan pudiche e taciturne
Le stelle, ardendo in sul deserto piano. Deserto al topo in ver, ma le diurne Cure sopian da presso e da lontano Per boschi, per cespugli ed arboscelli Molte fere terrestri e molti uccelli.
E biancheggiar tra il verde all'aria bruna, Or ne' campi remoti, or sulla via, Or sovra colli qua e là, più d'una Casa d'agricoltor si discopria;
E di cani un latrar da ciascheduna Per li silenzi ad or ad or s'udia, E rovistar negli orti, e nelle stalle Sonar legami e scalpitar cavalle,
Trottava il conte, al periglioso andare Affrettando co' suoi le quattro piante, A piedi intendo dir, chè cavalcare Privilegio è dell'uomo, il qual, di tante Bestie che il suol produce e l'aria e il mare, Sol per propria natura è cavalcante, Come, per conseguenza ragionevole, Solo ancor per natura è carezzevole.
Era maggio, che amor con vita infonde, E il cuculo cantar s'udia lontano, Misterioso augel che per profonde Selve sospira in suon presso che umano, E qual notturno spirto erra e confonde Il pastor che inseguirlo anela invano, Nè dura il cantar suo, che in primavera Nasce e il trova l'ardor venuto a sera.
Come ad Ulisse ed al crudel Tidide, Quando ai novi troiani alloggiamenti Ivan per l'ombre della notte infide, Rischi cercando e insoliti accidenti, Parve l'augel che si dimena e stride, Segno, gracchiando, di felice eventi Arrecar da Minerva, al cui soccorso L'uno e l'altro, invocando, era ricorso; Non altrimenti, il topo, il qual® solea Voci e segni osservar con molta cura, Non so già da qual nume o da qual dea Topo o topessa o di simil natura, Sperò certo, e mestier gliene facea - Per sollevare il cor della paura. Che il cuculo, che i topi han per divino, Nunzio venisse di non reo destino.
Ma già dietro boschetti e collicelli Antica e stanca in ciel salía la luna E su gli erbosi dorsi e i ramoscelli. Spargea luce manchevole e digiuna, Nè manifeste l'ombre a questi e quelli Dava nè ben distinte ad una ad una; Le stelle nondimen tutte copria E disiata al peregrin venia.
Pur, come ai topi il lume è poco accetto, Di lei non molto rallegrossi il conte, Il qual, trottando a piè, siccome ho detto, Ripetea per la valle e per lo monte
L'orme che dianzi, di fuggir costretto, Impresse, avea con zampe assai più pronte; E molti il luogo or danni, ora spaventi Di quella fuga gli rendea presenti.
Ma pietà sopra tutto è disconforto Moveagli, a ciascun passo, in sul cammino, O poco indi lontan, vedere o morto O moribondo qualche topolino,
Alcun da piaghe ed alcun altro scorto Dalla stanchezza al suo mortal destino, A cui con lo splendor languido e scemo Parea la luna far l'onore estremo.
Cosi, muto, volgendo entro la testa Profondi filosofici pensieri
E chiamando e sperando alla funesta Discordia delle stirpi e degl'imperi Medicina efficace, intera e presta Dai giornalisti d'ambo gli emisferi, Tanto andò che la notte, a poco a poco Cedendo, al tempo mattutin diè loco. Tutti desti cantando eran i galli Per le campagne e gli augelletti ancora Ricominciando insiem gli usati balli Su per li prati al mormorar dell'ora, E porporina i sempiterni calli Apparecchiava al di la fresca aurora. Nè potea molto star che all'orizzonte Levasse il re degli anni alta la fronte; Quando da un poggio il topo, rimirando Non molto avanti in giù nella pianura, Vide quel che, sebbene iva cercando, Voluto avria che fosse ancor futura La vista sua, ch'or tutto l'altro in bando Parve porre dal cor che la paura
Non sol per sè, ma parte e maggiormente Perchè pria del creduto era presente.
Vide il campo de' granchi, il qual, fugate Ch'ebbe de' topi le vincenti schiere, Ver Topaia, là dove indirizzate S'eran le fuggitive al suo parere, Deliberossi, andando a gran giornate, Dietro quelle condurre armi e bandiere; E seguitando lor, men d'una notte Distava ond'esse il corso avea condotte. Tremava il conte, e già voltato il dosso Aveano i servi alla terribil vista; E muro non avria, non vallo o fosso Tenuto quella gente ignava e trista: Ma il conte, sempre all'onor proprio mosso, Come fortezza per pudor s'acquista,. Fatto core egli pria, sopra si spinse Gridando ai servi ed a tornar gli strinse; E visto verdeggiar poco lontano Un uliveto, entrâr subito in quello, E del verde perpetuo con la mano O con la bocca côlto un ramicello, E sceso ciaschedun con esso al piano, Sentendo un gelo andar per ogni vello E digrignando per paura i denti, Vennero agl'inimici alloggiamenti.
Non se n'erano appena i granchi accorti Quando lor furo addosso, e con gli ulivi Stessi, senza guardar dritti nè torti, Voleano ad ogni patto ingoiar vivi, O gli avrian per lo men subito morti,. Se in difesa de' miseri e cattivi
Non giungeva il parlar che con eterna Possanza il mondo a suo piacer governa. Perchè, quantunque barbaro e selvaggio De' granchi il favellar, non fu celato Al conte, ch'oltre al far più d'un viaggio, Sendo per diplomatico educato,
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