E palesami il ver: che cosa è mai Questo convito e questa turba? e quale Mestier n' hai tu? Forse una festa, o forse Questa cena è nuzial? chè certo a scotto Esser non può, si bruttamente parmi Che banchettin costoro. Un uom di senno Qua venuto, in mirar tanta sconcezza, Chi ch' ei si fosse, monterebbe in ira. E Telemaco il saggio a lei rispose: Ospite mio, (poi che di ciò m'inchiedi) Doviziosa sempre e senza colpa Fu questa casa infin ch' ebbe ricetto Quell' uom nel patrio suolo. Ora altramente Per voler degli dêi va la bisogna; Chè, vôlti a farci danno, il padre mio Più ch'uomo alcuno han reso ignoto. E spento Nol piangerei così se stato ei fosse Con i compagni suoi da' Teucri domo, O, compiuta la guerra, tra le braccia Pur de' suoi cari fosse morto. A lui Tutti avrebbon gli Achei fatta una tomba, E immensa fama al suo figliuolo ancora Restata ne saria. Ma se l'han tolto
Inonorato le rapaci Parche;
Perito egli è; nullo il conosce o n' ode Il nome, e doğlia m' ha lasciato e pianto. Nè già dolente il ploro sol; chè d'altri Acerbi guai m' han fabbricato i numi. Ogni prence che l'isole governa Di Dulichio, di Samo e di Zacinto Dalle molte boscaglie, e que' che impero Hanno in Itaca alpestre, a sposa ognuno Vuol la mia madre, e la magion diserta. Nè l'odiate nozze ella ricusa
Nè fin può porre al male: e quelli intanto
Banchettando ruinano la casa,
E me fra poco perderanno ancora.
A sdegno avendo i suoi disastri, a lui Disse Palla Minerva: O numi! in vero Grand' uopo hai tu del pellegrino Ulisse Che giunto i Proci inverecondi assalga. Se ritornato adesso e' sulla prima Soglia ristasse con celata e targa
E con due lance, a quella foggia in cui Nella nostra magion la prima volta Di bere e di far festa il vidi in alto, Quando venne d' Efira e della reggia D'Ilo figliuol di Mermero (chè Ulisse Là s'era tratto su veloce legno Un veneno omicida a ricercargli Di che l'enee saette unger potesse: Ma quel non gliene diè, chè tema avea De' sempiterni numi; il padre mio Donògliene però, ch' assai l' amava); Se tale a' Proci ei si mescesse, ognuno Pronto fato n' avrebbe e nozze amare. Ma se tornato in sua magione ei debba Rivendicarsi o no, questo de' numi Si sta sulle ginocchia. Or come possi Lungi cacciar da questa reggia i Proci, Esplorar ti consiglio. Attentamente Ascolta il mio parlar. Gli achivi eroi Chiama domani a parlamento e, presi In testimoni i dêi, tutti gli aringa; Di girne alle lor case ordina a' Proci; Ed alla madre tua, se il cor le invase Desio di nozze, di tornarsi al tetto Del genitor possente. Ei colla madre Di sue nozze avrà cura, e ricca dote, Le appresterà quale è mestier che segua
La figlia sua. Ma per te stesso ancora Saggio consiglio ti darò. Se vuoi
Fare a mio senno, una tua nave (e sia Questa fra tutte la miglior) di venti Rematori fornisci, e di novelle
Del padre tuo, che da gran tempo è lungi, In traccia vanne, ove a mortal t'avvenga, Che alcuna te ne rechi, o quella voce Udir tu possi che da Giove scende E tra gli uomini adduce il più di fama. Va prima a Pilo a interrogar Nestorre Simile a nume; quindi a Sparta, al tetto Del biondo Menelao, ch'ultimo venne Fra gli Achei che di rame han le corazze. Se vivo il padre ed in ritorno udrai, Benchè d'affanni oppresso, un anno ancora Sosterrai d'aspettar. Se fia che intenda Com'ei s'è morto e più non è, tornato Alla tua patria terra, un monumento Allor gl'innalza e, quali a lui si denno, Grandi esequie gli fa. Poscia a uno sposo Da' la tua madre: e, ciò fornito, il modo Di trucidar nella tua reggia i Proci Con frode o alla scoperta, in cor, nell'alma Va meditando. Or da fanciul non devi Più diportarti, e già non sei piccino. E non intendi in quanta gloria venne Appo gli uomini tutti il divo Oreste, Poi ch'ebbe spento Egisto, il frodolento Ucciditor del padre suo, del padre. Si rinomato già, ch'e' gli avea morto? Tu pur si prode, amico mio (chè bello Ti veggio e grande assai) perchè ti lodi, Qualche postero ancora, Io torno al mio Veloce legno e a'miei compagni, Intanto,
Forse che loro d'aspettarmi è grave, Abbi te stesso e i miei consigli a cura. Telemaco il prudente a lei di nuovo Rispose: Amicamente, ospite, in vero, Come padre a figliuol, pôrti tu m'hai Questi consigli; e non sarà ch'io sappia Unque obliarli. Ma rimanti un poco, Benchè fretta ti dia, sì che lavarti E ricrear ti possi il core: andrai Lieto quindi alla nave, un don recando Prezioso, bellissimo, che fia
Uno de' miei più ricchi arnesi e quale A caro ospite dar l'ospite ha in uso.
E a lui Minerva, l'occhi-glauca dea, Poscia disse cosi: Non rattenermi
Or che vaghezza ho di partire. Il dono Che a farmi il cor ti spinge, allor che giunto Qua di nuovo sarò, mi porgi, ond' io Alla mia casa il rechi; e sia pur bello, Chè di compensazion per te fia degno. Parti, ciò detto, l'occhi-glauca Palla Volando come augel che si dilegua; E vigore e baldanza in core a lui Pose, e del genitor più che non era Ricordevole il fe. Seco pensando Quegli stupi, chè riputolla un nume: E tosto a' Proci andò simile a dio. Cantava innanzi a lor l'inclito vate; E, sedendosi, quelli chetamente Stavanlo udendo. Egli cantava il tristo Ritorno d'Ilio degli Achei, chè tale Fu per voler di Pallade. Ne intese Dalle superne stanze il divin canto L'Icaride Penelope la casta,
E giù di sua magion per l'alta scala
Scese; sola non già, chè la seguiro Due fanti. Ella ristette in sulla soglia Del ben costrutto albergo, il suo bel velo Tenendo anzi alle gote; e allato avea D'ambe le parti le due fide ancelle. Al divino cantor si volse e disse Lacrimando così: Femio, molt'altri Canti di che diletto hanno i mortali E molt' opre sai tu d'uomini e dêi Cui celebrano i vati. Or qui sedendo Una ne canta, mentre quelli il vino Cheti beendo van: ma questa lascia Dolorosa canzon che il core in petto Sempre m'attrista. Acerbo duol m'assalse, Me sopra tutti, ch'uomo tal desio
E che vo meco rimembrando ognora
Lui che in Grecia ed in Argo ha immensa fama. Ed a lei poscia in questi accenti il saggio Telemaco rispose: O madre mia,
Perchè vuoi tu che dilettar non possa Quest'amabil cantore a suo talento? · Non da' cantori, ma da Giove il male A noi deriva; ei de' mortali industri Quello a ciascuno invia che più gli aggrada. Ma questi, se de' Greci i casi acerbi
Or cantando si sta, biasmar non dèssi; Chè gli uomini lodar più ch'altra mai Soglion quella canzon che a chi l'ascolta Giunge più nuova. E tu fa core e l'odi. Ulisse il sol non fu che del ritorno Perdesse in Ilio il di: molt' altri eroi Perirono del pari. Alle tue stanze Tu riedi ed abbi a cor le tue faccende, La tela e il fuso; ed alle ancelle imponi Che diansi all'opre lor. Gli uomini tutti
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