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Assodato questo, richiamando, come si deve, i frammenti sparsi del pensiero di Dante più adatti ad integrarlo, risulta che la definizione della grammatica' rispecchia lo stato di fatto del Latino, lingua tutta spenta' nell'uso, ma rimasta come strumento dei dotti quale era stata fissata tanti secoli prima nelle opere degli scrittori; e che la formazione n'è concepita presso a poco con quella mescolanza di verità e d'errore con cui è concepita la formazione del volgare letterario, che vedremo nel seguito.

I, X. Attraverso la rettorica figura della preterizione, mentre dichiara di non volere entrare in merito alla gara, allora vivace, a quale dei tre volgari spettasse l'eccellenza, contesta il vanto della priorità degli altri due con l'osservare che s'essi sono entrati prima nell'uso moderno, il nostro è più conforme alla antica grammatica', e quello che il volgare d'oil fosse più spedito e dilettevole e il volgare d'oc più compiuto e più dolce contrapponendo l'altero giudizio nazionale e personale che i poeti più armoniosi e insieme più profondi erano al suo tempo gl' Italiani. E storia di sentimenti e biografia. Si rifà obiettivo e scientifico quando per la prima volta traccia la spartizione dei dialetti italiani in quattordici, tra i due versanti dell'Adriatico e del Tirreno, segnati dallo spartiacque appenninico, compreso il Friuli e l'Istria da un lato e le isole dell' altro.

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I, XI-XIV. Deciso a dir male di tutti i dialetti, in pro della sua concezione che la lingua nazionale è lingua letteraria, cioè costrutta (come la grammatica '), ne discorre il confronto in maniera immaginosa, dello sfrondare di una selva intricata di rami e di pruni per aprirsi un varco, e del vaglio che trasceglie: qualche volta alternando quasi bizzarramente e mescolando le due immagini sicché a me

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pare di potere segnar qui una delle riprove del rilievo del Rajna, che quest'opera, oltre che esser rimasta frammentaria, è di primo getto, senza revisione (ma altre non ne mancano, e di pensiero e di forma).

Sradica dunque dapprima Romani, Marchigiani e Spoletini, e poi Milanesi e Bergamaschi, Aquileesi e Istriani, e tutte insieme le parlate di montagna e rurali, e quella dei Sardi <«< che imitano il latino, come le scimmie imitano gli uomini ».

Dopo di questa devastazione, metterà nel vaglio i dialetti che rimangono, per farne una scelta più riguardosa (ma c'è dell'ironia). Ai Siciliani riconosce il merito di aver dato il nome alla nuova poesia; ma è vanto di quei poeti e della curia ospitale di Federigo e di Manfredi, non del dialetto in se stesso. Dei Pugliesi è da dirsi lo stesso: curiali quei rimatori, da ripudiarsi il dialetto.

I più presuntuosi sono i Toscani, che si arrogano senz'altro il vanto del volgare; ed ecco ch'egli stacca fiori dalle loro parlate, Fiorentina, Pisana, Lucchese, Senese, Aretina e li

espone al ridicolo. Anche i loro poeti, Guittone, Bonagiunta, Gallo, Mino, Brunetto furon municipali. Ma sebbene quasi tutti i Toscani non sentano la bruttezza del loro dialetto, non manca chi abbia compreso che il volgare è qualcosa di meglio, e precisamente Guido, Lapo e Cino, che qui nomina dopo quei due primi amici e dopo se stesso, non per minor merito, ma (credo) per l'onesta ragione ch'era il più giovane. In coda ai Toscani motteggia i Genovesi.

Valicati i gioghi dell'Appennino, trova nella sinistra d'Italia due dialetti di qualità opposte, il romagnolo, sdolcinato e femmineo (ma i rimatori Tommaso e Ugolino Bucciola, faentini, han saputo evitarlo), e un altro aspro e rozzo, ch'è dei Bresciani, Veronesi, Vicentini, Padovani, e anche di Treviso. I Veneziani non pretendono, né potrebbero, di esser giudicati meglio: però un loro rimatore, Ildebrandino da Padova, ha cercato di staccarsi dal volgar materno.

Ammette che il bolognese possa giudicarsi il migliore dei dialetti d'Italia, perché vi si contemperano la mollezza degli Imolesi con la gutturalità longobardica dei Ferraresi, Modenesi, Reggiani e Parmensi; ma non se ne deduca che possa essere assunto alla dignità del volgare. Guido Guinizelli, Guido Ghisileri, Fabruzzo e Onesto, rimatori insigni e esperti conoscitori dei volgari, non scrivono come si parla a Bologna.

Di Trento, Torino, Alessandria non c'è da

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discorrere, perché queste città, poste ai cònfini, hanno di necessità parlate impure.

I, XVI-XIX. Dalle pagine precedenti, risulta chiara l'idea che il volgare nazionale, degno della letteratura (si dica così senza scrupolo, pur pensando di preferenza alla poesia, alla canzone) non è identificabile con nessuno dei dialetti. L'analisi è capricciosa, più materiata delle dispute, delle competizioni, dei frizzi del tempo, che di dati; ma la domina uno schietto senso antimunicipale.

Ora ci aspetteremmo che Dante mostrasse quale dunque deve essere il volgare nazionale. Senonché egli s'indugia a teorizzare che, come per tutte le cose materiali e spirituali c'è una misura, una regola secondo cui si giudicano, così del volgare c'è un tipo ideale, un modello, secondo cui i dialetti si riconoscono più o meno italianamente nobili. È una petizione di principio. Né qualcosa di molto più. concreto si deduce dalle qualifiche che deve avere il volgare nazionale: illustre, cioè innalzato dalla dottrina, cardinale, cioè efficace sui dialetti come il cardine sulla porta (l'immagine comparativa mostra una lucida penetrazione), aulico e curiale, perché è quello che ritornerebbe dalla reggia, dove seggono la corte e le autorità, alla nazione, se l'Italia avesse una reggia e però, non avendola, tocca a costrurre il volgare per lavorìo mentale, riunendone in uno le sparse membra. Concreto è soltanto dove questo modello lo addita nel

l'opera propria e di Cino e qui sta il punto. Altrove abbiamo visto che Dante volle essere il profeta del volgare; qui vediamo che se ne professa il messia. E perché non ha sbagliato, è grande! La storia gli ha dato ragione, proclamandolo quale presunse di essere.

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Resta che l'idea della costruzione del volgare da tutti i dialetti e contro tutti i dialetti, nacque in Dante principalmente dal senso che ebbe vivacissimo dell'azione individuale di scrittore sul linguaggio: «.... di tra tanti rozzi vocaboli degli Italiani, tanti incerti costrutti, tante difettose pronuncie, tante villane cadenze, lo vediamo scelto così distinto e spedito e compiuto e urbano.... Non estirpa forse tutti i giorni gli arbusti spinosi dalla selva italica? Non mette tutti i giorni nel suolo nuove piante e non pianta i vivai ? ». A questa azione sua e dei migliori rimatori, egli guardò soprattutto; e ne ebbe diritto. Ma la sopravvalutò, tanto da sembrare che abbia disconosciuto quello di cui i corregionali del tempo suo già non dubitavano punto (ce lo dice egli stesso), che il volgare italiano, o scritto o parlato, era essenzialmente il toscano.

Forse il Manzoni non sbagliò troppo di meno quando professò che la lingua scritta non debba esser altro che quella che si parla a Firenze, svalutando a sua volta l'azione letteraria individuale e collettiva. Eppure non solo l'uno e l'altro grande scrissero.... bene; ma è istruttivo riconoscere che le loro errate

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