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dottrine riuscirono adatte ad agire proficua-. mente sulle età rispettive.

ALLA MONARCHIA.

III, x. Con ragionamento deduttivo, mostra che non si può scindere l'Impero, ch'è universalità e unità del genere umano, e non si menoma il diritto pubblico, ch'è al di sopra degli imperatori, i quali ne sono investiti come tutelatori e vindici. Se fossero ammesse amputazioni, ne verrebbe l'assurdo che un po' alla volta l'impero potrebbe esser ridotto al nulla..

Inoltre, posto che l'imperatore avesse la facoltà di alienare parte di ciò ch'è dell' Impero, la Chiesa non ha quella di ricevere, perché glielo vietano i sacri testi.

Appare chiaramente da questo tratto che Dante non dubitò della storicità della donazione di Roma da parte di Costantino a papa Silvestro, che soltanto la critica più illuminata del Rinascimento poté confutare. Ma qui come altrove (Mon. II, XII: «O felicem populum [romanum], o Ausoniam te gloriosam, si vel nunquam infirmator ille Imperii tui natus fuisset, vel nunquam sua pia intentio ipsum fefellisset!»; e cfr. Inf. XIX, Purg. XVI, Par. XX), tende a farla interpretare quale nel suo concetto del diritto poteva e doveva essere, una dotazione, un usufrutto, pel decoro. della Chiesa e pei poveri di Cristo, non un dominio temporale, né una ricchezza mondana

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contraria ai principî e agli insegnamenti del Vangelo.

III, XVI. Gli ultimi paragrafi di questo capitolo chiudono l' opuscolo d'occasione', come chiama il Gentile la Monarchia, nel suo più immediato intento dialettico e polemico, ch'è di dimostrare l'indipendenza dell' imperatore dal papa; indipendenza che non toglie, e non diminuisce, l'ossequio filiale e cristiano. Esprimono un audace parallelismo tra l'una e l'altra autorità. Questa come quella è di nomina divina alla nomina dell'imperatore presiede direttamente Dio, che solo vede dall'alto tutti gli umani bisogni, nelle varie regioni e sotto l'influsso di tutti i suoi cieli, che sono gl' istrumenti della sua provvidenza. Dio elegge, Dio conferma; gli elettori', quelli che oggi si chiaman tali, o quali siano stati in passato o sian per essere in avvenire, non sono che i 'denunziatori della volontà divina, come i cardinali in conclave per la nomina del papa ; e se talvolta non vanno d'accordo, ciò dipende dalla loro cecità, che impedisce di vedere in Dio il suo provvedere.

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I capiversi precedenti a questa conclusione del fine immediato dell'opera, esprimono in una chiara sintesi il pensiero filosofico e cristiano di Dante, ciò che ha imparato da Aristotele e da San Paolo, e che ha fuso in unità ideale, sulla guida di San Tommaso, e in unità pratica, etica e politica, per il proprio ingegno e la propria indole: ch'è la sua parte

personale. Da Aristotele ha appreso che l'umanità raggiunge il suo fine in questo mondo, ch'è la felicità' nella pratica delle virtù morali e intellettuali, guidata dalla ragione (la sapienza, la filosofia); dal pensiero cristiano, che gli uomini raggiungono il proprio fine nell'altro, ch'è il godimento di Dio, guidati dalla rivelazione, esercitando le virtù teologali, fede speranza e carità. Con San Tommaso ha fuso in unità ideale i due fini, ma tenendone distinti i mezzi; ed è sua la piena estensione del pensiero cristianounus ovis et unus pastor dalla chiesa alla monarchia; e tutta sua è la forza del grido, cristiano sì, ma attuale, per la giustizia e la pace, condizione elementare pel primo fine e viatico pel secondo.

Sono concezioni solenni (e sentimenti potenti), nella storia del pensiero umano che vuole riviver se stesso nei secoli. Ma le idee cambiano, la poesia resta. E perché di Dante resta la poesia, è qui opportuno notare l'efficacia dinamica ch'ebbero queste concezioni sulla sua fantasia. Rispecchiano la grandiosa, ma semplice allegoria della Commedia : lo smarrimento nella selva e il corto andare impedito dalle fiere; l'aiuto divino; Virgilio che proclama sicura, perché necessaria, la redenzione e si fa guida nell'esperienza del male e nell'ascensione alla felicità, ch'è simboleggiata nell' Eden; Beatrice ch'è guida alla beatitudine nell'empireo.

È il prologo unico del sacro poema,

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ALLE EPISTOLE.

I. E il grido d'esultanza d'un assetato di giustizia e di pace che vede finalmente spuntare il giorno aspettato e ha fede nel suo meriggio. Ma vuole essere il grido di tutti gl' Italiani oppressi e dispersi. Vi facciano eco anche gli oppressori, pentendosi della loro ingiustizia: ché l'imperatore li perdonerà, mentre sarà inesorabile con gli ostinati. Oh, la barbarie longobardica che guasta la gentilezza latina, rimetta alfine della sua durezza e la superbia s'umilii E i veri gentili, perdonando i torti patiti, si faccian riconoscere gli agnelli del gregge: ché l' Imperatore, a simiglianza di Colui da cui si biforca l'autorità di Cesare e di Pietro, è più disposto alla misericordia che alla vendetta. Su dunque, gl' Italiani tutti pacificati tra loro e pieno il cuore d'inusata letizia, sorgano incontro al loro re, che qui è re di liberi e nel mondo è imperatore, come l'Altissimo che nel cielo regna e nel mondo impera.

Né ci sia chi s'ostina, allucinato o folle, a non riconoscerlo, bestemmiando di non voler padrone poiché al re dei Romani è destinato da Dio il dominio di quanto il cielo circonda. Lo dimostrano i miracoli che accompagnarono la preparazione dell'impero, a ripensarne la storia dalle prime remotissime origini sino alla pace di dodici anni che letificò il mondo alla venuta di Cristo: il quale prescrisse di dare a

Cesare ciò ch'è di Cesare e a Dio ciò ch'è di Dio, e insegnò a Pilato venir da Dio quella autorità ch'egli vantava in qualità di vicario. Il papa stesso ci esorta a obbedire all' Imperatore e rendergli omaggio.

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E la più bella delle epistole di Dante, per la passione che vi si fa poesia. Egli parla sub specie aeternitatis, sommosso da tutti i suoi principî etici e politici, fuor delle contingenze, che son richiamate soltanto per associarsi ai principi, con quella fede che muove i monti. Deve aver seguito a breve distanza l'enciclica di Clemente V Exultet in gloria, ch'è del 1o settembre 1310.

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II. Questa comincia pacata e didascalica e si fa a mano a mano concitata e apocalittica. Sul principio, è l'espressione sintetica del pensiero politico di Dante, del suo dogma. « La pietosa provvidenza del Re eterno, che mentre perpetua i cieli nella sua bontà, non sprezza e non abbandona questo nostro mondo inferiore, dispose che gli uomini fossero governati dal sacrosanto Impero dei Romani, affinché il genere umano godesse la pace sotto al sereno di sì possente presidio, e dovunque, come natura chiede, vivesse in civile consorzio. Ciò. provano le sacre carte e lo attestano gli antichi scrittori con argomenti puramente razionali; ma n'è eloquentissima conferma che, vacando il soglio imperiale, tutto il mondo disvia, che il nocchiero e i rematori sonnecchiano nella navicella di Pietro, che la misera

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