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lattia degli occhi, la quale mi costringe a starmene in casa tutto il dì, senza nè leggere nè scrivere. Non posso uscir fuori, se non la sera al buio, come i pipistrelli. Starò qui tutta l'estate; l'inverno a Pisa, se io non mi sentirò troppo male: nel qual caso tornerò a Recanati, volendo morire in casa mia.

Ammalatosi anche alle gengive, spasimante per dolore acuto di denti, la dimora fiorentina gli diventa insopportabile. << Firenze », ne conclude (24 luglio), « non sarebbe certamente il luogo ch'io sceglierei per consumar questa vita » . E scrive al suo « caro Puccinotti », dopo di averlo vivamente esortato a compiere l'« opera fisiologica sui temperamenti », la quale sarebbe certo riuscita << degna dell'Italia, utile al mondo» (il 16 agosto):

Sono stanco della vita, stanco della indifferenza filosofica, ch'è il solo rimedio de' mali e della noia, ma che infine annoia essa medesima. Non ho altri disegni, altre speranze che di morire. Veramente non tornava conto il pigliarsi tante fatiche per questo fine. Starò qui fino a mezzo ottobre: poi sono incerto se andrò a Pisa o se a Roma. Ma se mi sentirò male assai, verrò a Recanati, volendo morire in mezzo ai miei.

Di questo tempo s'incontrarono a Firenze i due maggiori poeti italiani del secolo, anzi i maggiori dall'Ariosto e dal Tasso in giù. Il 1 agosto '27, lo Stella aveva chiesto al Leopardi: « Il romanzo del Manzoni lo ha Ella letto? Sentirei volentieri il Suo parere ». E il 23, il Leopardi aveva risposto d'averne solamente sentito leggere alcune pagine », ma in Firenze le persone di gusto lo trovavano « molto inferiore all'aspettazione », e gli altri generalmente lo lodavano. Il 30 poi egli avvertiva il Brighenti: Qui si aspetta Manzoni a momenti». L'8 settembre, scriveva al padre: «Tra' forestieri ho fatto conoscenza e amicizia col famoso Manzoni di Milano, della cui ultima opera tutta l'Italia parla, e che ora è qui colla sua famiglia ». E allo Stella: « Io qui ho avuto il bene di conoscere personalmente il signor Manzoni, e di trattenermi seco a lungo: uomo pieno di amabilità, e degno della sua fama ». 1 Più tardi, al Vieusseux che, accennando

1 Cfr. BONGHI, Perchè la letteratura italiana non sia popolare n Italia, in fin della lettera VI.

all'articolo del Tommasèo sul Manzoni, stampato nel fascicolo d'ottobre dell'Antologia, gli diceva: « non se ne parla più, e ciò non vi farà meraviglia » ; ei replicava (31 dicembre):

L'articolo sul Manzoni potrà trovar molti che abbiano opinioni diverse, ma certo non potrà ragionevolmente esser disprezzato. Solo quella divinizzazione che vi si fa del Manzoni, mi è dispiaciuta, perchè ha dell'adulatorio, e gli eccessi non sono mai lodevoli. 1

E il 25 febbraio 1828, dichiarava al Papadopoli:

Ho veduto il romanzo del Manzoni, il quale, non ostante molti difetti, mi piace assai, ed è certamente opera di un grande ingegno; e tale ho conosciuto il Manzoni in parecchi colloqui che ho avuto seco a Firenze. È un uomo veramente amabile e rispettabile.

Il qual giudizio egli confermava, scrivendo il 17 giugno al padre:

Ho piacere che Ella abbia veduto e gustato il Romanzo cristiano di Manzoni. È veramente una bell'opera; e Manzoni è un bellissimo animo e un caro uomo. Qui si pubblicherà fra non molto una specie di continuazione di quel romanzo, la quale passa tutta per le mie mani. Sarà una cosa che varrà poco; e mi dispiace il dirlo, perchè l'autore è mio amico, e ha voluto confidare a me solo questo secreto, e mi costringe a riveder la sua opera, pagina per pagina; ma io non so che ci fare. 2

1 Circa l'articolo del Tommasèò, e in generale sui primi giudizii, pronunziati un po' a vànvera, del Romanzo manzoniano, è da vedere il prezioso articoletto di MICHELE BARBI, A. Manzoni e il suo romanzo nel carteggio del Tommasèo col Vieusseux, nella « Miscellanea di studi critici edita in onore di A. Graf», Bergamo 1903, p. 235 ss.

2 Nell' Epistolario leopardiano occorre ancora qualche altra volta il nome del Manzoni. Il fratello Pierfrancesco mandò a Giacomo, il 1° giugno '28, una copia degl' Inni sacri ristampati in quel torno di tempo a Macerata, con una dedicatoria di Monaldo (si può leggerla riprodotta da C. A.-TRAVERSI, in Studi su G. L., p. 8-9). « E vi mando questo libro », dichiarava, più perchè leggiate questa, che gl' Inni, perchè m'immagino che lo stesso Manzoni ve li avrà dati a leggere. Fatemi dire.... dove attualmente si trovi il suddetto Manzoni ». Giacomo rispose: «Vi son proprio obbligato di avermi fatto leggere quella bella e originale dedicatoria. Manzoni è con la sua famiglia a Milano sua patria, dove è stabilito. È vero che io aveva già i suoi Inni: ho ancora e porterò costì tutte le altre tre opere, fuori del Romanzo». - Il 12 aprile '29, il Leopardi sospetta, e non a torto, che l'Accademia della Crusca macchini qualcosa per non assegnargli l'ambito premio quinquennale, e scrive

Monaldo replicò, osservando acutamente, a proposito della Monaca di Monza che lo sciagurato amico di Giacomo, il prosuntuoso e vacuo professore dell' Università pisana Giovanni Rosini, mulinava:

Perchè mai codesto amico vostro s'impegna a continuare il Romanzo di Manzoni? Quell' opera deve essere imitata quanto si può, ma nessuno speri di uguagliarla; ed essa resterà sempre somma ed inarrivabile nella sua classe. Il mettersi dunque tanto scopertamente in linea con esso, voler sentire dichiarata da tutto il mondo la propria inferiorità. Appena letto quel Romanzo, ne fui rapito, e lo giudicai prezioso non tanto alle lettere, quanto alla religione e alla morale. Ebbi poi molta compiacenza nel sentire che in Roma i confessori Gesuiti lo danno a leggere alle loro penitenti.

E l'antico pupillo del padre Torres aveva ragione di compiacersene: questa volta almeno la sua fede religiosa poteva andare pomposamente a braccetto con la sua ammirazione letteraria! Tuttavia, nel sorridere alla squisita riproduzione di quel tipo di nobiluccio e di saccente che fu don Ferrante, non balenò mai al conte Monaldo il sospetto che il romanziere avesse come indovinato qualche lineamento del suo viso e rifrugato qualche angoletto del suo animo? E che avrà egli poi pensato di quel principe milanese, che, con un'ostinazione sciocca quanto sacrilega, volle per forza che la sua Geltrudina si facesse monaca, non ostante che questa gli dicesse in tutti i toni che le ripugnava il « vel del core », e giungesse ad apertamente ribellarsi alla tirannia paterna? Pur troppo, anche l'arte vera e grande può sì divertire ed esaltare; ma quanto a convincere e a convertire, essa, come qualunque altra filosofia, non ci riesce se non con quelli che non hanno alcun interesse a rimaner fermi nei loro propositi e nelle loro superstizioni!

al Vieusseux: «Da una frase.... del Poggi nell'Antologia... deduco che l'Accademia della Crusca, per non premiare le Operette morali, abbia intenzione di violar piuttosto le regole, decretando spontaneamente il premio ai Promessi Sposi di Manzoni, il quale certamente non è concorso ». - E il 28 maggio '32, per giustificarsi col padre d'aver pubblicamente dichiarato non sua un'operetta ch'era invece di Monaldo, assevera: «Non son io l'uomo che sopporti di farsi bello degli altrui meriti. Se il romanzo di Manzoni fosse stato attribuito a me, io non dopo quattro mesi, ma il giorno che l'avessi saputo, avrei messo mano a smentire questa voce in tutti i giornali ».

XIV.

A Pisa, nell'inverno 1827-1828.
Silvia».

-

« Il Risorgimento » e « A Giacomo assiste a una lezione del CarmiIl pro

gnani e a una recitazione del Guadagnoli.
fessor Rosini. La morte del fratello Luigi. Il ri-
torno a Firenze e la malinconica estate del 1828. Π
ritorno a Recanati.

Dopo molta indecisione, se andare a passar l'inverno a Roma, a Massa di Carrara, a Pisa, o sino a Como o a Venezia come gli proponeva lo Stella, finalmente, cedendo al consiglio degli amici fiorentini, si determinò per la bella rivale di Firenze, « città tanto migliore e di clima tanto accreditato. Giammai il Leopardi fu più contento della scelta; e nessun'altra volta una città nuova gli aveva destata, o gli destò poi, una simpatia più viva. Il 23 luglio (1827), aveva notata nello Zibaldone questa Memoria (vol. VII, p. 232-33):

Cangiando spesse volte il luogo della mia dimora, e fermandomi dove più dove meno o mesi o anni, m'avvidi ch' io non mi trovava mai contento, mai nel mio centro, mai naturalizzato in luogo alcuno, comunque per altro ottimo, finattantochè io non aveva delle rimembranze da attaccare a quel tal luogo, alle stanze dove io dimorava, alle vie, alle case che io frequentava; le quali rimembranze non consistevano in altro che in poter dire qui fui tanto tempo fa; qui, tanti mesi sono, feci, vidi, udii la tal cosa; cosa che del resto non sarà stata di alcun momento; ma la ricordanza, il potermene ricordare, me la rendeva importante e dolce. Ed è manifesto che questa facoltà e copia di ricordanze annesse ai luoghi abitati da me, io non poteva averla se non con successo di tempo, e col tempo non mi poteva mancare. Però io era sempre tristo in qualunque luogo nei primi mesi, e coll'andar del tempo mi trovava sempre divenuto contento ed affezionato a qualunque luogo. Colla rimembranza egli mi diveniva quasi il luogo natio.

Pisa invece gli piacque subito, non appena vi mise il piede. Il 12 novembre, scrive alla Paolina:

Partii da Firenze la mattina del 9 in posta, e arrivai la sera a Pisa, viaggio di 50 miglia. Ieri notte, per la prima volta, dopo più di sei

mesi e mezzo, dormii fuori di locanda, in una casa dove mi sono collocato in pensione, a patti molto discreti1. Sono rimasto incantato di Pisa per il clima: se dura così, sarà una beatitudine. Ho lasciato a Firenze il freddo di un grado sopra gelo; qui ho trovato tanto caldo, che ho dovuto gittare il ferraiuolo e alleggerirmi di panni. L'aspetto di Pisa mi piace assai più di quel di Firenze: questo lung' Arno è uno spettacolo così bello, così ampio, così magnifico, così gaio, così ridente che innamora: non ho veduto niente di simile nè a Firenze nè a Milano nè a Roma: e veramente non so se in tutta l' Europa si trovino molte vedute di questa sorta. Vi si passeggia poi nell'inverno con gran piacere, perchè v'è quasi sempre un'aria di primavera: sicchè in certe ore del giorno quella contrada è piena di mondo, piena di carrozze e di pedoni: vi si sentono parlare dieci o venti lingue, vi brilla un sole bellissimo tra le dorature dei caffè, delle botteghe piene di galanterie, e nelle invetriate dei palazzi e delle case, tutte di bella architettura. Nel resto poi, Pisa è un misto di città grande e di città piccola, di cittadino e di villereccio, un misto così romantico che non ho mai veduto altrettanto. A tutte le altre bellezze si aggiunge la bella lingua. E poi vi si aggiunge che io, grazie a Dio, sto bene, che mangio con appetito, che ho una camera a ponente che guarda sopra un grand'orto, con una grande apertura tanto che si arriva a veder l'orizzonte, cosa di cui bisogna dimenticarsi in Firenze.

E nello stesso giorno, al Vieusseux :

Sono più che contento, sono proprio innamorato di questo cielo. Ho lasciato a Firenze l'inverno, e qui ho trovato l'autunno, di maniera che ho dovuto gittar via il pastrano e alleggerirmi di panni. Anche l'aspetto di Pisa mi piace assai. Quel lung'Arno, in una bella giornata, è uno spettacolo che m'incanta: io non ho mai veduto il simile: tu che hai viaggiato mezzo mondo, avrai veduto forse qualche cosa di questo genere in Olanda o altrove; ma questo sole, questo cielo, sono ornamenti che non avrai trovati fuori d'Italia, e sono pure una gran parte di questo spettacolo. Del rimanente, io trovo qui un misto di città grande e di città piccola, di cittadino e di rustico, tanto nelle cose quanto nelle persone: un misto propriamente romantico.

Non si direbbe che sia proprio il Leopardi! Il sole di Pisa lo ha convertito di classico in romantico; e se ne compiace. E piace ascoltare quel che il giorno appresso gli rispondeva il Vieusseux, non potendo consolarsi dell'assenza dell'amico caramente diletto.

1 La casa era in Via Fagiuoli, ora Della Faggiuola.

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