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promette di empierli di studi gloriosi. Pensi dunque, io La supplico, a rallegrarsi e invigorirsi; e invece di allettare i pensieri malinconici, li sfugga. L'indole malinconica in atto di allegria è quel temperamento d'ingegno che può produrre le belle cose; ma l'attuale malinconia è un veleno, che più o meno distrugge la possa della mente.

L'estenuato Giacomo, commosso per tanta e tanto amorevole premura, a cui non era davvero assuefatto, si affrettò a rispondere (30 aprile):

Ella mi raccomanda la temperanza nello studio con tanto calore e come cosa che Le prema tanto, che io vorrei poterle mostrare il cuor mio perchè vedesse gli affetti che v'ha destati la lettura delle Sue parole; i quali, se il cuore non muta forma e materia, non periranno mai, certo non mai. E per rispondere come posso a tanta amorevolezza, dirolle che veramente la mia complessione non è debole ma debolissima, e non istarò a negarle che ella si sia un po' risentita delle fatiche che le ho fatto portare per sei anni. Ora però le ho moderate assaissimo; non istudio più di sei ore il giorno; spessissimo meno; non iscrivo quasi niente; fo la mia lettura regolata dei Classici delle tre lingue in volumi di piccola forma, che si portano in mano agevolmente, sì che studio quasi sempre all'uso dei Peripatetici, e, quod maximum dictu est, sopporto spesso per molte e molte ore l'orribile supplizio di stare colle mani alla cintola.

Il buon Giordani aveva, col fine lodevolissimo di farla parere meno intollerabile a chi vi era costretto a vivere, arrischiato un elogio di Recanati, che diceva « posta in sito salubre ed ameno ». Fu un tasto falso, e Giacomo prorompe in un'invettiva d'odio; la quale se moralmente atterrisce, letterariamente invece è maravigliosa per verità e passione, per espressione e immediatezza. Riferirla tutta, non potrei, chè mi porterebbe via molto spazio; mi contenterò di solo un brano, che pur vale a illuminare fin nel profondo il baratro che s'era spalancato in quella squisitissima anima giovanile.

1 È chiaro che qui il Giordani vuol parlare dell'humour. E codesta sua definizione, che non vedo rilevata da quanti continuano a dichiarare indefinibile quella specie di temperamento e di triste gaiezza, più veramente propria dei popoli e delle letterature nordiche, mi pare assai felice.

Che cosa è in Recanati di bello? che l'uomo si curi di vedere o d'imparare? niente. Ora Iddio ha fatto tanto bello questo nostro mondo, tante cose belle ci hanno fatto gli uomini, tanti uomini ci sono, che chi non è insensato arde di vedere e di conoscere; la terra è piena di meraviglie; ed io di dieciott'anni potrò dire: In questa caverna vivrò, e morrò dove son nato? Le pare che questi desiderii si possano frenare che siano ingiusti, soverchi, sterminati? che sia pazzia il non contentarsi di non veder nulla, il non contentarsi di Recanati? L'aria di questa città L'è stato mal detto che sia salubre. È mutabilissima, umida, salmastra, crudele ai nervi e per la sua sottigliezza niente buona a certe complessioni. A tutto questo aggiunga l'ostinata, nera, orrenda, barbara malinconia che mi lima e mi divora, e collo studio s'alimenta e senza studio s'accresce. So ben io qual è, e l'ho provata, ma ora non la provo più, quella dolce malinconia che partorisce le belle cose, più dolce dell'allegria; la quale, se m'è permesso di dir così, è come il crepuscolo, dove questa è notte fittissima e orribile, è veleno, com' Ella dice, che distrugge le forze del corpo e dello spirito. Ora come andarne libero non facendo altro che pensare, e vivendo di pensieri senza una distrazione al mondo? E come fare che cessi l'effetto se dura la causa? Che parla Ella di divertimenti? Unico divertimento in Recanati è lo studio; unico divertimento è quello che mi ammazza: tutto il resto è noia. So che la noia può farmi manco male che la fatica, e però spesso mi piglio noia, ma questa mi cresce, com'è naturale, la malinconia; e quand'io ho avuto la disgrazia di conversare con questa gente, che succede di raro, torno pieno di tristissimi pensieri agli studi miei, o mi vo covando in mente e ruminando quella nerissima materia.

Pur di codesti tristissimi pensieri » è rimasta un'eco in quel canto delle Ricordanze, ch'è la più alta espressione lirica di rimpianto pel « caro tempo giovanil», miseramente perduto << senza un diletto, inutilmente », nel soggiorno disumano » della terra natale, « intra gli affanni», da tutti « abbandonato » e a tutti occulto », « senz' amor,

«

E già nel primo giovanil tumulto
Di contenti, d'angosce e di desio,
Morte chiamai più volte, e lungamente
Mi sedetti colà su la fontana

Pensoso di cessar dentro quell'acque
La speme e il dolor mio.

senza vita».

In lingua povera, egli aveva vagheggiato il suicidio. Lo spiattellerà alcuni mesi più tardi al fratello Carlo, in quella angosciosa lettera di congedo che aveva preparata per lui, quando tentò la fuga dal carcere domestico. Allora dirà:

Ora che la legge mi fa padrone di me stesso, non ho voluto più differire quello ch'era indispensabile secondo i nostri principii. Due cagioni m'hanno determinato immediatamente, la noia orribile 1 derivata dall'impossibilità dello studio, sola occupazione che mi potesse trattenere in questo paese; ed un altro motivo che non voglio esprimere, ma tu potrai facilmente indovinare. E questo secondo, che per le mie qualità sì mentali come fisiche, era capace di condurmi alle ultime disperazioni, e mi facea compiacere sovranamente nell'idea del suicidio, pensa tu se non dovea potermi portare ad abbandonarmi a occhi chiusi nelle mani della fortuna.

Anche senza essere a parte delle confidenze fraterne, si può forse indovinare quali fossero quei motivi. O non l' ha detto egli medesimo, il poeta, nell'Amore e Morte, che «fin la donzella timidetta e schiva», se è agitata dalle furie d'amore,

«

Osa alla tomba, alle funeree bende
Fermar lo sguardo di costanza pieno,
Osa ferro e veleno
Meditar lungamente,
E nell'indotta mente

La gentilezza del morir comprende?

Quando il gran travaglio interno» giunge al punto sostener nol può forza mortale »

O cede il corpo frale

Ai terribili moti...;

O così sprona Amor là nel profondo,
Che da sè stessi il villanello ignaro,

La tenera donzella

Con la man violenta

Pongon le membra giovanili in terra.

« che

1 Nel Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare, il Leopardi dice della noia che «anco è passione, non altrimenti che il dolore e il diletto». Ne riparla nel Pensiero LXVII, dove definisce : <<< Poco propriamente si dice che la noia è mal comune. Comune è l'essere disoccupato, o sfaccendato per dir meglio; non annoiato. La noia non è se non di quelli in cui lo spirito è qualche cosa. Più può lo spirito in alcuno, più la noia è frequente, penosa e terribile... ». E nel Pensiero seguente ripiglia: «La noia è in qualche modo il più sublime dei sentimenti umani... »; patirla, «pare a me il maggior segno di grandezza e di nobiltà, che si vegga della natura umana ». — Circa Il sentimento della noia nel Leopardi, e quel tanto ch'ei desunse per codesto soggetto dal Pascal (Misère de l'homme), è da vedere M. LOSACCO negli Atti dell'Accademia di Torino », 30 giugno 1895.

Or su quella povera anima, così bisognosa d'amore e così deserta, eran di recente passate le bufere della passione, tanto più violenta quanto più nascosta e ignorata, per la donna del Primo amore, e quelle della disperazione per la lenta e inesorabile morte della fanciulla «lieta e pensosa», ch'egli poi pianse e immortalò col nome di Silvia. La Teresa Fattorini era morta nel settembre del 1818; e la lettera a Carlo è del luglio 1819.

Al padre, che s'intende, non fece cenno nè di codesto motivo nè del suicidio; ma ben gli ricordò le micidiali malinconie e le terribili noie, dalle quali s'era sentito sospinto verso estreme risoluzioni.

Ella conosceva ancora la miserabilissima vita ch'io menava per le orribili malinconie, ed i tormenti di nuovo genere che mi procurava la mia strana immaginazione, e non poteva ignorare quello ch'era più ch'evidente, cioè che a questo, ed alla mia salute che ne soffriva visibilmente, e ne sofferse sino da quando mi si formò questa misera complessione, non v'era assolutamente altro rimedio che distrazioni potenti, e tutto quello che in Recanati non si poteva mai ritrovare. Con tutto ciò Ella lasciava per tanti anni un uomo del mio carattere, o a consumarsi affatto in istudi micidiali, o a seppellirsi nella più terribile noia, e per conseguenza, malinconia, derivata dalla necessaria solitudine, e dalla vita affatto disoccupata, come massimamente negli ultimi mesi.

Dei tragici propositi di quei giorni inenarrabili egli lasciò vivo e immediato ricordo nel suo Zibaldone (vol. I, p. 193), donde appunto lo esumò quando, nel 1829, cantò le sue Ricordanze.

Io ero oltremodo annoiato della vita, sull'orlo della vasca del mio giardino, e guardando l'acqua e curvandomici sopra con un certo fremito pensava: S'io mi gittassi qui dentro, immediatamente venuto a galla mi arrampicherei sopra quest'orlo, e sforzatomi d'uscir fuori, dopo aver temuto assai di perdere questa vita, ritornato illeso, proverei qualche istante di contento per essermi salvato e di affetto a questa vita, che ora tanto disprezzo e che allora mi parrebbe più pregevole.

Ed è probabile che anche lì, sull'orlo della vasca tentatrice, ei ripensasse a Saffo e ne immaginasse il suo Ultimo canto, dacchè, nella stessa nota dello Zibaldone, ripiglia:

La tradizione intorno al salto di Leucade poteva avere per fondamento un'osservazione simile a questa.

IX.

Il miraggio del mondo di là dall'Appennino.
Giordani a Recanati.

La visita del

Nel suo «< primo giovanile errore » (ed errore proprio nel senso provenzalesco, di quel travaglio interno di cui è cagione l'amore '), quando <«< era in parte altr'uom» da quel che gli anni e l'esperienza lo avevan fatto, anche il Giordani aveva, non che pensato, tentato di porre « le membra giovanili in terra». A una sua amica scriveva, sette anni dopo quella tragica notte in cui aveva trangugiato il veleno: Se perdessi la speranza di vivere studiando, « abborrirei la vita; una volta ho tentato distruggerla per disperazione d'amore » . Ma non per questo solo. Non compreso nè amato in casa, la madre, << con la sua disgustosissima serietà », lo aveva mortalmente ferito con uno sconcio paragone 2; e alla nuova umiliazione, nello sconforto d'amore, il giovane sensitivo non aveva voluto sopravvivere. È facile immaginare ciò che ora egli provasse nell'assister da lontano allo strazio e al rodimento di quell'altra anima in pena.

Non conoscendo a fondo le singolari condizioni di quella casa patrizia marchigiana, annidata e rannicchiata su quel remoto colle dell'Appennino, il Giordani, quasi che quel povero contino, sprovvisto di salute e di quattrini, potesse esser confuso con un conte Alfieri di spendereccia memoria,

1 Cfr. il mio commento al Canzoniere di F. Petrarca; Milano, Hoepli, 1907, p. 3.

2 In una lettera al Leopardi, del 9 settembre 1817, il Giordani scriveva, con meno acredine ma non meno annoiato: «Mi diverto ad esercitare pazienza colla mia buona madre, che è la più sublime e la più incomoda santa della terra: mi diverte il potermi vantare di sopportare una santità che impazientirebbe gli apostoli e i profeti ». Il cavalleresco Giacomo, rispondendogli, non fiatò di quell'altra santa, che esercitava invece, e come!, la pazienza sua.

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