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canati, il marchese Carlo ritentò dunque la prova d'aprir gli occhi e di scuoter l'egoismo di quei genitori, tiranni e carnefici incoscienti; e questa volta vi riuscì. Il 17 novembre, la comitiva si mise in via per Roma. Giacomo fu accompagnato allo zio Girolamo, sofferente d'emicrania: la loro era una specie di carrozza d'ambulanza! E mentre il resto proseguiva direttamente per la capitale, essi fecero una breve sosta a Spoleto.

Alla città eterna giunsero il 23 novembre (1822). Ma quale disinganno! Il 25, Giacomo scriveva al fratello Carlo:

Se tu credi che quegli che ti scrive sia Giacomo tuo fratello, t'inganni assai, perchè questi è morto o tramortito, e in sua vece resta una persona che a stento si ricorda il suo nome.... Delle gran cose che io vedo non provo il menomo piacere, perchè conosco che sono maravigliose, ma non lo sento, e t'accerto che la moltitudine e la grandezza loro m'è venuta a noia dopo il primo giorno... Durante il viaggio ho sofferto il soffribile... In somma io sono in braccio di tale e tanta malinconia, che di nuovo non ho altro piacere se non il sonno: e questa malinconia, e l'essere sempre esposto al di fuori, tutto al contrario della mia antichissima abitudine, m'abbatte ed estingue tutte le mie facoltà in modo ch' io non sono più buono da niente, non ispero più nulla, voglio parlare e non so che diavolo mi dire, non sento più me stesso, e son fatto in tutto e per tutto una statua... Senti, Carlo mio, se potessi esser con te, crederei di potere anche vivere, riprenderei un poco di lena e di coraggio, spererei qualche cosa, e avrei qualche ora di consolazione. In verità io non ho compagnia nessuna: ho perduto me stesso; e gli altri che mi circondano, non potranno farmi compagnia in eterno. Scrivimi distesamente.... Amami, per Dio. Ho bisogno d'amore, amore, amore, fuoco, entusiasmo, vita: il mondo non mi par fatto per me: ho trovato il diavolo più brutto assai di quello che si dipinge. Le donne romane alte e basse fanno propriamente stomaco; gli uomini fanno rabbia e misericordia. Ma tu scrivimi e amami... Addio, caro ex carne mea.

E scrivendo alla Paolina, il 3 dicembre, completava codesto fosco quadro.

Il più stolido Recanatese ha una maggior dose di buon senso che il più savio e più grave Romano. Assicuratevi che la frivolezza di queste bestie passa i limiti del credibile... Il materiale di Roma avrebbe un gran merito se gli uomini di qui fossero alti cinque braccia e larghi due. Tutta la popolazione di Roma non basta a riempire la piazza di San Pietro.... Tutta la grandezza di Roma non serve ad altro che a moltiplicare le distanze, e il numero de' gradini che bisogna salire per trovare chiunque vogliate. Queste fabbriche immense, e queste strade

per conseguenza interminabili, sono tanti spazi gittati fra gli uomini, invece d'essere spazi che contengano uomini. Io non vedo che bellezza vi sia nel porre i pezzi degli scacchi della grandezza ordinaria sopra uno scacchiere largo e lungo quanto cotesta piazza della Madonna. Non voglio già dire che Roma mi paia disabitata; ma dico che se gli uomini avessero bisogno d'abitare così al largo, come s'abita in questi palazzi, e come si cammina in queste strade, piazze, chiese, non basterebbe il globo a contenere il genere umano.

Peggio che peggio quanto a cultura. Di questa dà conto al padre, al letterato, il 9 dicembre:

Quanto ai letterati..., io n'ho veramente conosciuto pochi, e questi pochi m' hanno tolto la voglia di conoscerne altri. Tutti pretendono d'arrivare all' immortalità in carrozza, come i cattivi cristiani al paradiso. Secondo loro, il sommo della sapienza umana, anzi la sola e vera scienza dell' uomo, è l' Antiquaria. Non ho ancora potuto conoscere un letterato romano che intenda sotto il nome di letteratura altro che l' Archeologia. Filosofia, morale, politica, scienza del cuore umano, eloquenza, poesia, filologia, tutto ciò è straniero in Roma, e par un giuoco da fanciulli, a paragone del trovare se quel pezzo di rame o di sasso appartenne a Marcantonio o a Marcagrippa. La bella è che non si trova un Romano quale realmente possieda il latino o

il greco; senza la perfetta cognizione delle quali lingue, Ella ben vede che cosa mai possa essere lo studio dell'antichità. Tutto il giorno ciarlano e disputano, e si motteggiano ne' giornali, e fanno cabale e partiti; e così vive e fa progressi la letteratura romana. 1

Povere mura ed archi e colonne e simulacri, sognati e vagheggiate nella solitudine di Recanati! Ohimè, l'infelicità ei la sentiva in sè e attorno a sè oramai, da per tutto; e il sospiroso poeta la ritrovava anche oltre i monti azzurri del suo Piceno, come l'avrebbe ritrovata anche di là da quel lontano mare, che una volta aveva contemplato con tanto desiderio dalla prigione paterna! Il 28 gennaio 1823 così confortava la sorella, anch'essa impaziente della clausura recanatese:

La felicità umana è un sogno; il mondo non è bello, anzi non è sopportabile, se non veduto come tu lo vedi, cioè da lontano; il piacere è un nome, non una cosa; la virtù, la sensibilità, la grandezza

1 Cfr. anche le lettere: a Carlo, 16 dicembre; al Giordani, 1o febbraio 1823; al Vieusseux, 2 febbraio 1824; al Papadòpoli, 19 dicembre 1825.

d'animo sono non solamente le uniche consolazioni de' nostri mali, ma anche i soli beni possibili in questa vita; e questi beni, vivendo nel mondo e nella società, non si godono nè si mettono a profitto, come sogliono credere i giovani, ma si perdono intieramente, restando l'animo in un vuoto spaventevole.... La felicità e l'infelicità di ciascuno uomo (esclusi i dolori del corpo) è assolutamente uguale a quella di ciascun altro, in qualunque condizione o situazione si trovi questo o quello. E perciò, esattamente parlando, tanto gode e tanto pena il povero, il vecchio, il debole, il brutto, l'ignorante, quanto il ricco, il giovanė, il forte, il bello, il dotto; perchè ciascuno nel suo stato si fabbrica i suoi beni e i suoi mali; e la somma dei beni e dei mali che ciascun uomo si può fabbricare è uguale a quella che si fabbrica qualunqu' altro.

Un mese avanti che arrivasse in Roma, v'era morto Antonio Canova, ch'egli tanto aveva desiderato di conoscere; e morta era pure, il 31 agosto, quella buona zia Ferdinanda, maritata Melchiorri, che dei parenti era quella che più e meglio gli somigliasse e lo amasse. Onde Giacomo se ne rammaricava col Giordani (1o febbraio).

Che ti dirò di Canova? Vedi ch' io son pure sfortunato, come soglio, poichè quando aveva pure ottenuto, dopo tanti anni e tanta disperazione, d'uscire dal mio povero nido e veder Roma, il gran Canova, al quale principalmente era volto il mio desiderio, col quale sperava di conversare intimamente e di stringere vera e durevole amicizia col mezzo tuo, appena un mese avanti il mio arrivo in questa città piena di lui, se n'è morto. E la morte ha preso piacere d'uccidermi, quasi sul punto della mia mossa, alcune altre persone ch'erano qui, e che rivedendomi fuor d'ogni speranza loro e mia, si sarebbero rallegrate assai per l'affetto che mi portavano, ed io mi sarei confortato di vederle e di star con loro.

1

Tuttavia, a Roma fece una conoscenza preziosa: quella del Ministro di Prussia, ch'era niente meno che il Niebuhr. Per un certo articoletto filologico da lui pubblicato colà, nelle Effemeridi letterarie del dicembre 1822,' questi desiderò di parlargli; e Giacomo narra la sua visita, al fratello, il 12 marzo 1823.

Sono stato da lui: m'ha detto che questo è il vero modo di trattare la filologia; ch' io sono nella vera strada, che mi pregava caldamente a non abbandonarla, che non mi spaventassi se l'Italia non mi

1 Notae in M. T. Ciceronis De Republica quae supersunt.... 2 Cfr. F. MORONCINI, Studio sul L. filologo; Napoli 1891, p. 213 ss.

avrebbe applaudito, perchè tutti gl' Italiani sono fuor di strada; che non mi sarebbe mancato l'applauso degli stranieri, ecc. Ha preso spontaneamente l'impegno di fare stampare in Germania quello ch'io ho scoperto o fossi per iscoprire nelle Biblioteche di Roma: insomma mi ha mostrato tanto interesse, che, sentendomi necessitato a partire di qua in breve, m' ha domandato se non accetterei volentieri qualche impiego.

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Si era nello Stato papale, e gli ufficiali del Governo avrebbero dovuto indossarne la livrea, come diceva Monaldo. E qui il Leopardi impuntava. Il Niebuhr, qualche giorno dopo, gli scrisse, « colla maggior gentilezza e premura possibile d'aver parlato col Segretario di Stato, ch'era il cardinal Consalvi, e d'averlo trovato ben disposto: condizione però necessaria, tenuto conto della sua « avversione al sacerdozio » di prendere almeno l'abito di Corte! Giacomo, informandone il fratello, concludeva (22 marzo):

In somma, è quasi certo che s'io avessi voluto farmi prelato, tu fra poco avresti sentito che tuo fratello in mantelletta se n'andava a governare una provincia.... Io mi diedi un' occhiata d'intorno, e conchiusi di non volerne saper niente.

E così, alla fine dell'aprile 1823, gli convenne lasciar Roma. La sera del 3 maggio, rientrò nel borgo natio: « nel mio bel Recanati », scrisse il giorno dopo, e, giova credere, senza intenzioni ironiche. Ma subito gli ripiombò sull'anima la tristezza inesorabile. Quella solitudine e quella monotonia lo accasciavano. «Ma vie est plus uniforme que le mouvement des astres, plus fade et plus insipide que les parole de notre Opéra », scriveva il 23 giugno al signor A. Jacopssen di Bruges, un amico che aveva conosciuto in Roma. E il 4 agosto dichiarava al Giordani che quella « sepoltura» ora gli riusciva << alquanto più molesta di prima», per la minore libertà che gli era permessa, e per « la presenza degli uomini, de' quali », diceva, « non so più che fare »: fastidiosa sempre, <«< molto più nelle città piccole, e massimamente nella patria, che nelle capitali, dove altri può vivere anche nel mezzo delle piazze come in un deserto ».

ma

Il Giordani, trovandosi in Firenze, gli offerse di collaborare all'Antologia del Vieusseux. « Tu che hai il più raro ingegno che io mi conosca » gli scriveva il 5 novembre 1823,

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«<e tanto sapere che appena è credibile, potrai farti conoscere così stupendo come sei, in questo giornale, che è il solo che abbia credito; e tu facendo onore a te e all'Italia, che ugualmente adoro, mi darai una grandissima consolazione ». Qualche mese dopo, il 15 gennaio 1824, il Vieusseux medesimo lo pregò di « rendervi conto di tale o tale opera nuova venuta alla luce in qualche parte d' Italia, e che ne meritasse la pena; ma più particolarmente d'imprendere a trattare delle novità scientifiche e letterarie dello Stato pontificio ». Ah sì ch'eran cose possibili a Recanati codeste! «Io vivo qui segregato dal commercio lamenta il Leopardi rispondendo, il 2 febbraio, «non solo dei letterati, ma degli uomini, in una città dove chi sa leggere è un uomo raro, in un verissimo sepolcro, dove non entra un raggio di luce da niuna parte, e donde non ho speranza di uscire ».

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XII.

Giacomo a Milano e a Bologna (1825-1826). samento del Bunsen. Il freddo di Bologna. alle Università di Berlino e di Bonn.

L'interes-
L'invito

Il raggio di luce s'annunziò ai primi di marzo del 1825. Il tipografo milanese A. F. Stella richiese Giacomo del suo << dotto e sincero parere » intorno a una vagheggiata ristampa delle opere di Cicerone con a fronte le migliori traduzioni italiane. Il Leopardi enumerò le gravi difficoltà dell'impresa: prima fra tutte, quella di dare un buon testo. Or codesta parte ei sarebbe stato pur disposto ad assumersela; « ma in tanta lontananza, e in una città priva affatto di libri moderni, massimamente in materia filologica, io non posso », egli insinua timidamente (13 marzo), « neppure indicarle in particolare i fonti che io preferirei ». L'onesto editore non s'aspettava forse tanto; e con cordialità e risolutezza tutta lombarda, gli rispose a volta di corriere, il 30 aprile:

La carissima Sua del 13 marzo mi ha riempiuto di riconoscenza e di confidenza insieme: onde con aperto animo Le dico che se dalla Sua

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