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Omero.

Tolse dai differenti idiomi d' Italia le

loro più belle locuzioni per trasfonderle nel suo. Come le api fanno il lor miele nel loro alveare del succo de' varj fiori, così formò egli sua lingua.

Quando questi idiomi non vanno a seconda del suo genio, egli ha ricorso alla lingua latina, e ciò che gli ricusan le figlie egli ottien dalla madre. Adatta, raffazzona, e modella, per così dire, le parole e le frasi latine in maniera che fa loro prendere inflessioni e desinenze italiane ; e talora, scotendo il giogo di tal fatica, scappa fuori con espressioni intieramente latine.

Aggiungansi a ciò le licenze poetiche, dal Petrarca imitate quindi in gran parte, e conservate più o men largamente dai posteriori Poeti, le quali però formano anche al dì d' oggi una lingua particolare, che quasi dir si potrebbe una lingua nella Lingua; licenze peraltro felici, le quali dilungandosi spontaneamente dalle regole, pongon lo spirito in un vasto spazio e gli offrono un libero campo. Ben vi accorgerete ch' egli poteva con giustizia vantarsi di non esser mai stato soggiogato dalla rima, e d'averla anzi forzata ad

esprimere il suo pensiero, ed a non mai fargli dire se non quello che dir precisamente voleva.

Il dialetto parlato in Toscana, il quale è tuttora l'italiano per eccellenza, ed il modello della purezza, della beltà e della perfezion di questa lingua, è però la base fondamental del suo stile. Egli è vero che gli si attribuisce un libro Della volgare eloquenza, in cui son biasimati i suoi compatriotti per la loro ingiusta predilezione pel toscano Idioma, e per la preferenza che gli danno sopra l' Italiano scelto indifferentemente tra tutti gli altri idiomi.(3) Ma questo libro, è di molto dubbiosa autenticità; ed il nostro Poeta poteva oltre di ciò sentir benissimo l'insufficienza della sua lingua nativa per le grandi idee che aveva ad esprimere, e sembrargli duro che gli venisse proibito di supplirvi coll' andar prendendo in imprestito, senza lasciar però che il fondo del suo stile fosse toscano. Non poteva essere altrimenti, perchè era esso il linguaggio del paese ov'era nato, ov'era stato allevato, e ch'egli non lasciò pria

(3.) Chiama il primo volgare cortigiano; nobil cortigiano il secondo.

d'esser giunto all' età d'anni trentasei. In tal linguaggio ei pensava; e nell'istesso tempo ch' ei meditava d' arricchirlo delle spoglie degli altri dialetti, tal pensiero doveva offrirsegli in parole

toscane.

Abbiam veduto che fino a Daute la lingua volgare era più una farragine di materiali da formare una lingua, ch' una lingua di già formata. Figuriamoci adesso un semplice Grammatico incaricato di tale assunto. Poteva egli distinguere le otto parti dell' orazione, porre insieme le leggi dell' etimologia e della costruzione; ma che avrebbe fatto con ciò? non altro se non ch' uno scheletro. Potrebbe mai esser la lingua Italiana ciò ch' ellasì è, se non avesse nel suo principio ricevuto l'anima da un fuoco creatore ?

Tutte le lingue debbono la loro forma ai Poeti, ed ai Poeti grandi quelle che son le più belle. I Poeti per l'estro lor primitivo fanno scorrere alle lingue degli immensi spazj, che non avrebber senz'esso scorsi se non in secoli interi. Non insegnan essi ai contemporanei ed ai posteri per mezzo di Grammatiche o di Dizionarj, ma per opere che rapiscon lo spirito, nelle quali i termini

della lingua, le frasi, le leggi sembrano respirare e vivere, e da cui i grammatici ed i lessicografi han cura poi d' estrarle e spiegarle. La lingua Italiana ha in ciò avuto miglior sorte che la latina : è stata essa felice al par della greca. Corta fu la sua infanzia giunse alla virilità quasi nell' uscir dalla culla.

Cominciò Dante a cantar sulla Cetra: egli, non meno che i suoi confratelli, non conoscendo altro oggetto di Poesia che l' amore, scrisse Sonetti, Ballate e Canzoni amorose. Era innamorato d'una fiorentina Donzella per nome Beatrice, che con dolore egli vide morire nel di lei Aprile degli anni, poichè Dio, maravigliato delle perfezioni di essa, fece a sè venire tanta virtù, di cui vedeva che questa nojosa vita non era degna.

Passò i Cieli con tanta virtute,

Che fe' maravigliar l' eterno Sire
Sì, che dolce desire

Lo giunse di chiamar tanta salute,
E félla di quaggiù a sè venire,
Perchè vedea, ch' esta vita nojosa
Non era degna di sì gentil cosa.

I versi che fece per lei mentr' ella visse e dopo che fu morta son pieni di dolce e patetica tenerezza: portan seco quel carattere che amatorio chiamasi dagli Italiani, e che varj Italiani bramerebbero di trovare nel Poema di Dante; ma han torto.

Questi scherzi della sua Musa son però negletti oggi giorno e quasi sommersi in oblio. Il gran Poema è quello su cui si fonda la gloria di Dante, e quella stessa di Beatrice, ch' in esso ritorna più splendida e più bella a godere d'una doppia immortalità, di quella, cioè, vera del cielo, e di quella del nome ne' versi del suo amante, e nella memoria degli uomini.

L'Inferno, il Purgatorio ed il Paradiso sono i soggetti di questo Poema, soggetti importanti, e capaci di ricevere le più grandi bellezze poetiche.

Non è nè può esser per alcuno indifferente lo stato dopo la morte. Quand' anche vi fossero degli spiriti fermamente convinti che tutto muore con noi, il loro numero non sarebbe ch' infinita

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