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crebbe ed inferocì la tristissima lite: -se la lingua letteraria s'avesse da chiamare Italiana, Toscana, o Fiorentina.--Così allora le animosità provinciali, che sino dalle età barbare avevano conteso a quel popolo sciagurato di riunirsi in nazione, erano esacerbate insieme e santificate da quegli uomini letterati i quali negavano all'Italia fin anche il diritto di possedere una lingua comune a tutte le sue città. Dante innanzi la fine della barbarie sentì che a comporre un reame di tante provincie, le quali parlando i loro dialetti non s' intendevano fra di loro, bisognava avvezzare tutti gli Italiani a comunicarsi a vicenda le leggi, la storia patria, i pensieri e gli affetti con una lingua scritta, più universale di qualunque dialetto popolare, e meno soggetta alle alterazioni che mutano quasi giornalmente i suoni e significati degl'idiomi parlati. Inoltre, per propria esperienza egli vide e presentì, che sì fatta lingua non poteva mai conseguirsi, se non se confondendo e fondendo, quasi metalli purificati e immedesimati dal fuoco, tutte le parole e le locuzioni che l'ingegno degli scrittori avrebbe potuto scegliere da ciascheduno di tanti dialetti come più atte a comporre la lingua letteraria e generale della nazione. Ma nell'età di Leone X sì celebrata per tanta abbondanza di letteratura, la lite sul nome della lingua incominciò sì stolta e accanita, che Niccolò Machiavelli, il più veggente fra gli scrittori politici, egli che pur non aspettava salute se non dalla riunione degli Italiani sotto un principe solo, anche a patti che fosse tiranno, assalì e la sentenza e la fama di Dante, e lasciò un terribile documento delle risse puerili, alle quali la vanità municipale conduce anche gli uomini grandi. Il Machiavelli chiamava meno inonesti quelli che volevano che la lingua fosse Toscana; e inonestissimi gli altri i quali chiamavanla Italiana; e amoroso della patria e giustissimo chiunque sosteneva doversi chiamare al tutto Fiorentina.1 Frattanto il Bembo, senza inframmettersi

1 Machiavelli, Discorso intorno alla Lingua, sul principio.

nella contesa ch' egli inavvedutamente aveva attizzata, favoriva i Fiorentini; anzi escluse le opere tutte di Dante dal privilegio di somministrare esempj a' grammatici. Credo ch'egli educato e promosso alle ecclesiastiche dignità, pigliasse pretesto dalla lingua, ch' ei chiamava rozza, di Dante, affine di condannarlo dell' avere virilmente negata a' Papi ogni potestà temporale. L'imitare l' effemminata poesia e l'amore Platonico del Petrarca era velo alle passioni sensuali le quali, purchè fossero adonestate, non parevano illecite. Il Bembo, seguace in tutto del Petrarca, aveva figliuoli illegittimi, ed era preconizzato successore di Paolo III.1 Più d'uno, qui dov'io scrivo, accusa quegli uomini d' ateismo, e s'ingannano. La loro religione s'immedesimava co' loro costumi; il che avviene alle religioni di tutta la terra. Il sentire religione è una delle passioni ingenite all' umana natura, e rarissimi vivono privilegiati dal prepotente bisogno di soddisfarla; ma simile alle altre passioni, si nutre di tutte le altre nel nostro cuore, e le nutre; e anch'essa viene soddisfatta in modi diversi, a norma de' costumi diversi, delle leggi e delle opinioni. L'assegnare norme alla lingua Italiana dal volume licenzioso del Decamerone, e lo scrivere latinamente di cose cristiane con forme e frasi al tutto pagane, parevano peccati veniali. Erasmo imputavali a sacrilegio; e derideva a un'ora l' ignoranza fratesca e la latinità non cristiana in Italia, a fine di spianare per tutti i modi la via a' nuovi dogmi. Rimase d'allora in qua nelle Università protestanti la tradizione della miscredenza de' prelati di Leone X. Pur, se non tutti, moltissimi sentivano la fede che professavano, ed erano talor combattuti da superstizioni contrarie. Alcuni votavansi di non leggere mai libri profani; ma non potendo lungamente reggere al voto, ne impetravano l'assoluzione dal Papa. Altri per non contaminare

1 Giovanni della Casa, Vita del Card. Bembo.

2 << Ho impetrata l'assoluzione del voto che voi faceste de Libris

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le cose cristiane con l'impura latinità de' frati e de' monaci,1 avrebbero voluto poter tradurre la Bibbia col frasario del secolo d'Augusto. Però non adoperavano sillaba mai che non fosse giustificata dagli esempi di Terenzio, di Cicerone, di Cesare, di Virgilio, e d'Orazio. Così la dottrina di ristringere tutta una lingua morta nelle opere di pochi scrittori fu più assurdamente applicata alla lingua viva degli Italiani; e i loro critici quasi tutti convennero non doversi attingere alcun esempio da veruna poesia, fuorchè dal canzoniere amoroso del Petrarca per Laura; nè alcun esempio di prosa da scrittore o scritto veruno, fuorchè dalle novelle del Decamerone. Con quanto frutto della religione, non so; ma la letteratura pur troppo discese effeminatissima a molte generazioni.

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Nondimeno anche quell'unico libro di prosa Italiana, sul quale erano fondate le leggi tutte quante della lingua, leggevasi scorrettissimo nelle stampe dove gli errori delle prime edizioni s'erano ripetuti e accresciuti ; e ne'codici peggio. Anzi alcuni copiatori del secolo xv avendo mutato nel testo le voci rare o antiche, e innestatevi chiose ed arguzie, facevano travedere interpolazioni per eleganze. Non molto innanzi che il Bembo pubblicasse intera l'opera sua, la stamperia degli Aldi procacciò un'edizione del Decamerone la quale potesse

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» Gentilium non legendis, ed avvene Sua Santità data la benedizione » sua sopra, con questa condizione che lo diciate al vostro confes» sore, il quale ve ne abbia a dare alcuna penitenzia, quale ad esso » parerà. » Bembo, Lett., lib. II, a Trifone Gabrieli.

1 << Non sarà uom che giudichi ch'elle (allude a due lettere in >> latino) siano di monaco, o per dire più chiaro, di frate - dolet » maculam jam per tot saecula inustam illi hominum generi-di non >> sapere scrivere elegantemente. » Bembo, Lett., lib. V, all'Arcivescovo di Salerno.

2 Giovanni della Casa, Vita del Card. Bembo.

3 Bembo, della Lingua Volgare, passim; - Varchi, Ercolano; Salviati, Avvert. su la lingua del Decam.

4 Prefaz. de' Deputati alla Correzione del Decam.-Ediz. 1573.

fare le veci di testo. Se non che l'accademia istituita in Venezia a ristorare gli antichi scrittori, s'era dispersa; il vecchio Aldo era morto già da sett'anni; Paolo Manuzio il quale poscia ereditò il sapere e la fama del padre, e fortuna tanto quanto men infelice, non era ancora uscito di fanciullezza; e il Bembo, non che mai attendesse, come altri oggi narra, a quell'edizione, le sue lettere manifestano ch'egli applicava alle regole grammaticali una lezione particolare del Decamerone, desunta molti anni innanzi da un codice che non sappiamo nè donde venisse nè dove andasse a finire.-Il Boccaccio stampato in Firenze del 1527 io non ho; chè ne corressi uno, di quelli stampati in Vinegia assai prima, con un testo antichissimo e perfetto. Nè poi mi ho curato d'altro.'-Notisi di passaggio come il Bembo, tenuto scrittore di purgatissima lingua, anzi notato per eccesso d'eleganza segnatamente nelle sue lettere,' scrive col dialetto veneziano mi ho curato, in vece di mi sono curato, che è proprio de' Fiorentini. Ma niuno può mai, per lungo studio ch'ei faccia, divezzarsi affatto dal suo dialetto materno; e comechè molti il contrastino, non però è meno vero che i dialetti diversi hanno perpetuamente cospirato a comporre una lingua letteraria e nazionale in Italia, non mai parlata da veruno, intesa sempre da tutti, e scritta più o meno bene secondo l'ingegno, e l'arte, e il cuore più ch'altro, degli scrittori. Del resto, l'edizione Aldina essendo uscita non assai prima, bensì non più che cinque anni innanzi la Fiorentina del 1527, è da dire che il Bembo alludesse a taluna delle molte ristampe anteriori pubblicate in Venezia. Oltre a ciò non si può intendere dal contesto, ch'egli emendasse le prove di tutta una edizione, ma ch'ei solamente sopra un esemplare stampato notasse tutte le migliori lezioni somministrate da quel suo codice. Nè pure la perfezione del

Bembo, Lett., vol. II, lib. III, al Rannusio.

2 Della Casa, Vita del Card. Bembo.

codice va giurata su la sua sentenza; perchè quantunque egli allora ottenesse, e anche oggi da molti, l'autorità d'infallibile critico, ei non pertanto fra le opere scritte in Italiano innanzi a Dante, cita l'Agricoltura di Pietro Crescenzio, e la Storia di Troja del Giudice di Messina,' le quali a dir vero erano originalmente Latine, e furono tradotte dopo cent'anni e più. Talvolta egli nega che il Boccaccio abbia tradotto una delle Decadi di Livio; e talvolta credelo, e insiste che sia stampata. Ad ogni modo la poca cura del Bembo a conoscere quanto i Fiorentini avessero emendato il libro sul quale doveva governarsi tutta la lingua, prova ch'ei credeva di leggerlo immacolato; e che a tramandarne a' posteri la vera lezione bisognava d'allora innanzi non tanto l'acume e il sapere de' critici, quanto gli occhi e la pazienza de' correttori di stampe:

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Così sognava, e tuttavia d'intorno
Quella divina illusïon gli errava,
Misero! nè sapea come il Tonante
Maturava i destini, e quanto pianto
E quanto sangue di perpetua guerra
Dovean pagare al Ciel Teucri ed Achei. 3

A' Fiorentini pareva che il Decamerone fosse straziato, e i loro privilegj manomessi oggimai troppo da' forestieri.“ Un Ambasciadore Veneziano interrogando il Machiavelli intorno a' meriti del Bembo, s'udì rispondere: Dico quello direste voi se un Fiorentino insegnasse la lingua vostra a' Veneziani. E se questa fosse più novella che storia, lascia scorgere

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1 Della Lingua Volgare, lib. I.

2 Lettere, vol. III, lib. V, a Bonaventura Orselli; - vol. II, lib. III, al Rannusio.

3 Iliade, lib. II.

4 << Andando di male in peggio, venne l'opera ad essere tal» mente alterata che fu d'uopo pensare al riparo per via de' Fioren» tini. » Manni, Illustr., pag. 642.

Opere del Machiavelli, tom. I, p. 4, ediz. Mil.

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