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insomma fu minuzzato; e magnificata ogni minuzia nel Decamerone; e descritte tutte quante or dall'uno or dall'altro, sotto nomi di ricchezze, proprietà e figure di lingua. Non però poteva venire mai fatto a veruno di conciliare tanta infinità di precetti con metodo che ne agevolasse la pratica. Le dottrine e le regole e le loro applicazioni cozzavano fra loro nelle pagine e nella mente di chi le dettava. Tanto più dunque le dispute fra diversi grammatici, intricandosi le une su le altre, crescevano atroci, oziose, lunghissime; ed occuparono tutti i cent'anni del secolo XVI.

Così la lingua che sola può dare progresso alla letteratura, impedivala. E nondimeno la letteratura era allora da tutti i secoli precedenti, e dalle nuove rivoluzioni del mondo versata sovra l'Italia a torrenti. Tutta la poesia, l'eloquenza e la storia e la filosofia de'Romani e de' Greci rivissero quasi di subito con la invenzione della stampa. Gli annali della terra e i nuovi costumi del genere umano scoperti con l'America, eccitavano la curiosità degli ingegni. I mari d'allora in poi incominciando ad arricchire altri popoli, l'opulenza che avevano portato alle città Italiane non potendosi più omai applicare al commercio, compiacque al lusso e alle belle arti. I palazzi arredati di monumenti e di biblioteche educarono antiquarj, e scrittori d'erudizione, e accrescevano la suppellettile letteraria. Accrescevala anche la servitù in che declinarono le città libere; da che i nuovi signori costringendo gli uomini generosi al silenzio, stipendiavano lodatori; nè vi fu secolo nel quale l'adulazione sia stata bramata con tanta libidine, o sì sfacciatamente professata ne' libri. Le controversie inerenti agli oracoli della Bibbia erano allora fierissime, universali. E quanto l'Europa in questa età sua decrepita ciarla

seg., ediz. Mil.), e il Salviati (Avvert. su la Lingua del Dec., lib. II, cap. 13 e seg.) regola uno per uno que' casi e altri molti con un precetto: e le sono, a credergli, cose utili e dilettevoli; ma chi le intende?

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di speculazioni politiche, tanto allora farneticava di religione; se non che le condizioni de' regni e gl'interessi de' principi e più assai degli Italiani pendeano, non come oggi da pubblicani che di carta fanno danaro a nudrire soldati, bensì da dottori che di teologia facevano ragioni a sommuovere popoli; e perchè quegli studj fruttavano ecclesiastiche dignità, produssero una moltitudine d' uomini letterati. Ma le turbe de' mediocri opprimevano i pochissimi grandi. L'eloquenza era arte ambiziosa nelle università; la troppa dottrina snervava l'immaginazione; e la sentenza intorno alla quale s'aggira tutta la Poetica d'Aristotile: «< che l'uomo è animale imitatore >> tunque variamente chiosata da molti, era superstiziosamente inculcata e obbedita in questo da tutti « doversi imitare, non la natura, ma gli imitatori della natura. » Però le lettere giovando alle arti, a' governi, alla chiesa e alle scuole, non esaltavano le passioni, non illuminavano la verità nelle menti, non ampliavano i confini dell'arte, e mortificavano le originalità degli ingegni. E per la nazione non v'era lingua; perchè lo scrivere e intendere la latina era meritamente privilegio di dotti: e l'italiana, comecchè men parlata che intesa da tutti, rimanevasi patrimonio di grammatici che disputavano fin anche intorno al suo nome.

Le nobili opere che sopravvissero alle altre mille di quella età sono dettate in latino. Il Sigonio nelle sue storie percorrendo lo spazio di venti secoli dalla epoca de' primi Consoli di Roma sino alle repubbliche Italiane, fu primo a traversare la solitudine tenebrosa del Medio Evo. Diresti che un Genio illumini tutto il suo corso, e trasfonda abbondanza, splendore e vigore alla sua latinità. Nondimeno le poche cose che gli vennero scritte in lingua italiana sono volgarissime e barbare. Vedeva che ad impararla gli bisognava perdere molta parte della sua mente ne' laberinti delle nuove

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4 Sigonii Opera, vol. VI, pag. 1000 seg., ediz. dell'Argelati.

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grammatiche; onde esortò i suoi concittadini che se avevano cura della posterità, le parlassero solamente in latino. Il che non s' ha da imputare a freddezza di carità per la patria, quando a volere descrivere in Italiano le trasformazioni universali dell' impero Romano, quel grand' uomo sarebbe stato ridotto ad andare accattando i vocaboli e l'orditura d' ogni sua frase nelle Novelle. Altri a modellare i loro pensieri con dignità, scriveano da prima le storie recenti della loro patria in latino, e le traducevano in italiano da se; e concorrevano ad arricchire la lingua letteraria. Frattanto gli autori romani somministravano molto maggiore e nobilissimo numero d'esemplari allo stile. La loro lingua governata da leggi assolute ed evidentissime aveva per giudice tutta l' Europa, mentre la fama d'ogni scrittore in Italiano pendeva dalla sentenza di gloriosi pedanti i quali giudicavano, raffrontando ogni nuovo libro al Decamerone. Concedevano-che il Machiavelli altri potesse arditamente paragonare a Cesare per la chiarezza, e a Tacito per la brevità e l'efficacia. Ma era nato in mal secolo.-Serisse del tutto senza punto sforzarsi. -Non volle prendersi alcuna cura di scelta di parola; e, però, non potevano udir senza risa chiunque nella lingua recasse a paragone le Storie del Machiavelli alle Novelle del Boccaccio; 3 e ridevano di tutte le generazioni avvenire. Non fa meraviglia che dopo tante censure de' Principi della Crusca contro al più celebre de'Fiorentini, tutti gl'Italiani scrivessero tremando, tanto più quanto l'autorità di dispensare la fama era d'anno in anno convalidata in quell' Accademia dalla servitù che veniva occupando l' Italia.

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La lingua, com'è detto di sopra, era nata nel secolo XIII e XIV dalla libertà popolare; e se gl'Italiani nel xv, quand'era

' Vedi l'Orazione, De Latinae Linguae usu retinendo.

2 Foscarini, Della Letteratura Veneziana, lib. III, pag. 252 e seg. 3 Salviati, Avvert. su la Lingua del Decam., lib. II, cap. 12 in fine: vol. I, pag. 247, ediz. Mil.

no meno ossequiosi a' Papi e più sicuri da' forestieri – e fu il solo tempo si fossero giovati di quel lunghissimo spazio d'anni a costituirsi indipendenti in Nazione, gli scrittori si sarebbero immedesimati di necessità con la loro patria, ed avrebbero ampliata una lingua men artificiale e più generosa, scritta insieme e parlata, e che non fu mai conosciuta,

At qualem nequeo monstrare et sentio tantum,

nè si conoscerà inai forse in Italia. Se non che le città attendevano a contendere più per via d'ambasciadori che d'eserciti fra di loro, e gli scrittori contemplavano oziosamente l'antica Roma ed Atene più che l'Italia; e scrivendo in latino si ridussero a Comunità diversa al tutto dalla Nazione. Lorenzo de' Medici forse aspirò, e non potè afferrare l'opportunità che alloramai cominciava a dileguarsi per sempre; tuttavia ridiede onore alla lingua. La sua morte accompagnata d' invasioni straniere e commozioni in tutta l'Italia, e da un nuovo governo popolare in Firenze, condusse una brevissima epoca propizia a'forti ingegni. Il Machiavelli scriveva aliora; e morì poco innanzi che i Papi e i loro bastardi ammogliati a bastarde di monarchi forestieri togliessero ogni senso e ogni voce di libertà a' Fiorentini. Però se gli uomini dotti continuarono a scrivere in latino, il più della colpa è da apporsi a'loro maggiori che avevano trascurato di provvedere i lor discendenti di lingua e di libertà; e quindi la moltitudine degli scrittori si rimase più sempre, quasi fosse un'Aristocrazia stipendiata ad amministrare i tesori della mente umana. Forse anche l' ambizione di sì misera preminenza indusse molti ad anteporre nel secolo XVI una lingua morta, come più rimota dal popolo. Alcuni innanzi al Sigonio, e specialmente quando Clemente VII coronò Carlo V a Bologna, perorarono perchè alla lingua Italiana fosse inibito di parlare ne' libri quasi che

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1 Varchi, Ercolano.—Apost. Zeno, Annot. al Fontanini, vol. I,

pag. 35.

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i decreti di Imperadori e di Papi bastassero. L'avviso fu poi suggerito contro la lingua francese al cardinale Mazzarino, o fatto suggerire da esso, affinchè la dottrina della cieca ubbidienza si perpetuasse sovra la razza Europea. I begli ingegni invece di ragioni opposero epigrammi, e fecero da savj; perchè niuno s'è più attentato di riparlarne. Ma Napoleone mentre affrettavasi a quella sublimità che, al parer suo, precipita gli uomini nel ridicolo, impose che i professori leggessero nelle università d'Italia in latino. Se non che le lingue non cedono nè prevalgono se non per leggi invariabili della natura e del tempo che le vanno procreando l'una dall'altra. Sogliono bensì prosperare nella libertà, ed intristirsi nella servitù. Le loro più dure catene sono procurate per via di leggi grammaticali.

Vero è che non prima sì fatte leggi cominciano a moltiplicarsi ed acquistare autorità potentissima, bastano a darti indizio che un popolo dallo stato libero passa sotto il potere assoluto. La Grecia dopo Alessandro non ebbe più oratori nè storici, bensì famosi grammatici, alcuni de' quali regnarono nelle Accademie de' Tolomei, a costringere alla nuova loro pronunzia i poemi d' Omero. Cesare trattò di grammatica; Augusto insegnavala a Mecenate ed a' suoi nipoti; Tiberio si dilettava di sottigliezze su la notomia de' vocaboli; Claudio scrisse intorno alle lettere dell' alfabeto; e anche a Plinio filosofo toccò di guerreggiare di penna co' maestri del bel dire, e non pare ch' ei n' uscisse senza paura. Ma gli studj

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4 « Ce sont là les effets que les secrets des savans, mal à pro» pos découverts aux peuples, ont produits chez les Romains, et >> dont l'exemple serait aussi périlleux à notre monarchie, qu'il a été >> dommageable à cet Empire.-Ce que l'on trouvera dans un Traité » de politique à qui j'ai donné le nom de la France, ou la Monar» chie parfaite. » — - Presso Bayle, art. Belot, nota B.

2 Pellisson, Hist. de l'Acad. Franç., pag. 195 e seg.

3 Suetonio, I, 6; II, 15; III, 8; IV, 4.
Hist. Nat., Epist. ad Vespasianum.

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