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CANZONE IV.

Rammemora quelle grazie, ch'e' scorse in Laura sin dal primo dì, in ch'ei la vide.

Tacer

acer non posso; e temo non adopre Contrario effetto la mia lingua al core; Che vorria far onore

Alla sua donna, che dal Ciel n'ascolta.
Come poss' io, se non m'insegni, Amore,
Con parole mortali agguagliar l' opre
Divine, e quel, che copre

Alta umiltate in se stessa raccolta ?
Nella bella prigione, ond' or è sciolta,
Poco era stata ancor l'alma gentile
Al tempo, che di lei prima m'accorsi:
Onde subito corsi

(Ch'era dell'anno, e di mi' etate Aprile) A coglier fiori in quei prati d'intorno, Sperando agli occhi suoi piacer sì adorno. Muri eran d'alabastro, e tetto d'oro, D'avorio uscio, e fenestre di zaffiro,

Onde 'l primo sospiro

Mi giunse al cor, e giugnerà l'estremo:

Indi i messi d'Amor armati usciro

Di saette e di foco: ond'io di loro

Coronati d'alloro,

Pur, com' or fosse, ripensando tremo.
D'un bel diamante quadro e mai non scemo
Vi si vedea nel mezzo un seggio altero,
Ove sola sedea la bella donna.

Dinanzi una colonna

Cristallina, ed iv' entro ogni pensero
Scritto; e fuor tralucea sì chiaramente,
Che mi fea lieto, e sospirar sovente .
Alle pungenti, ardenti, e lucid'arme;
Alla vittoriosa insegna verde,
Contra cu' in campo perde

Giove, ed Apollo, e Polifemo, e Marte;
Ov'è 'l pianto ogni or fresco, e si rinverde,
Giunto mi vidi: e non possendo aitarme,
Preso lasciai menarme,

Ond' or non so d' uscir la via, nè l'arte.
Ma siccom' uom talor, che piange, e parte
Vede cosa, che gli occhi e 'l cor alletta;
Così colei, per ch'io son in prigione,
Standosi ad un balcone,

Che fu sola a' suoi di cosa perfetta,

Cominciai a mirar con tal desio,

Che me stesso, e 'l mio mal posi in obblio. I' era in terra, e 'l cor in paradiso,

Dolcemente obbliando ogni altra cura;
E mia viva figura

Far sentia un marmo, e 'mpier di maraviglia;
Quand' una donna assai pronta e secura,

Di tempo antica, e giovene del viso,
Vedendomi sì fiso

All'atto della fronte e delle ciglia,

Meco, mi disse, meco ti consiglia,

Ch'i' son d'altro poder, che tu non credi;

E so far lieti e tristi in un momento

Più leggiera, che 'l vento;

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E reggo,
e volvo quanto al mondo vedi.
Tien pur gli occhi, com' aquila, in quel Sole;
Parte da orecchi a queste mie parole.
Il dì, che costei nacque, eran le stelle,
Che producon fra voi felici effetti,
In luoghi alti ed eletti,

L'una ver l'altra con amor converse:
Venere, e 'l Padre con benigni aspetti
Tenean le parti signorili e belle;
E le luci empie e felle

Quasi in tutto del ciel eran disperse.
Il Sol mai si bel giorno non aperse:
L'aere e la terra s'allegrava; e l'acque
Per lo mar avean pace, e per li fiumi.

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Fra tanti amici lumi

Una nube lontana mi dispiacque ;

La qual temo, che 'n pianto si risolve,
Se pietate altramente il ciel non volve.
Com' ella venne in questo viver basso;
Ch' a dir il ver, non fu degno d' averla ;
Cosa nova a vederla,

Già santissima e dolce, ancor acerba :
Parea chiusa in or fin candida perla:
Ed or carpone, or con tremante passo
Legno, acqua, terra, o sasso
Verde facea, chiara, soave; e l'erba
Con le palme, e coi piè fresca e superba;
E fiorir co' begli occhi le campagne;
Ed acquetar i venti e le tempeste
Con voci ancor non presle

Di lingua, che dal latte si scompagne;
Chiaro mostrando al mondo sordo e cieco,
Quanto lume del ciel fosse già seco.
Poi che crescendo in tempo ed in virtute
Giunse alla terza sua fiorita etate;
Leggiadria, nè beltate

Tanta non vide il Sol, credo, giammai.
Gli occhi pien di letizia, e d'onestate;
E'l parlar, di dolcezza, e di salute.
Tutte lingue son mute.

A dir di lei quel, che tu sol ne sai.

Si chiaro ha 'l volto di celesti rai,

Che vostra vista in lui non può fermarse:
E da quel suo bel carcere terreno
Di tal foco hai'l cor pieno,

Ch'altro più dolcemente mai non arse.
Ma parmi, che sua subita partita
Tosto ti fia cagion d' amara vita.
Detto questo, alla sua volubil rota

Si volse, in ch'ella fila il nostro stame,
Trista, e certa indovina de' miei danni :
Che dopo non molti anni,

Quella, per ch' io ho di morir tal famé,
Canzon mia, spense Morte acerba e rea;
Che più bel corpo occider non potea.

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