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La mente, ed uno spron quasi mi punge
Si che, sedendo, più che mai son lunge
Da trovar pace o loco.

E pur nulla non bramo,

E non ho fino a qui cagion di pianto.
Quel che tu goda o quanto,

Non so già dir; ma fortunata sei.
Ed io godo ancor poco,

O greggia mia, nè di ciò sol mi lagno.
Se tu parlar sapessi, io chiederei:
Dimmi: perchè giacendo

A bell'agio, ozïoso,

S'appaga ogni animale;

Me, s'io giaccio in riposo, il tedio assale (10)?

Forse s'avess' io l'ale

Da volar su le nubi,

E noverar le stelle ad una ad una,

O come il tuono errar di giogo in giogo,
Più felice sarei, dolce mia greggia,
Più felice sarei, candida luna.

O forse erra dal vero,

Mirando all'altrui sorte, il mio pensiero:

Forse in qual forma, in quale

Stato che sia, dentro covile o cuna,
È funesto a chi nasce il dì natale.

XXIV.

LA QUIETE

DOPO LA TEMPESTA.

Passata è la tempesta;

Odo augelli far festa, e la gallina,
Tornata in su la via,

Che ripete il suo verso. Ecco il sereno
Rompe là da ponente, alla motagna;
Sgombrasi la campagna,

E chiaro nella valle il fiume appare.
Ogni cor si rallegra, in ogni lato
Risorge il romorío,

Torna il lavoro usato.

L'artigiano a mirar l'umido cielo,

Con l'opra in man, cantando,

Fassi in su l'uscio; a prova

Vien fuor la femminetta a cor dell'acqua

Della novella piova;

E l'erbaiuol rinnova
Di sentiero in sentiero

Il grido giornaliero.

Ecco il sol che ritorna, ecco sorride
Per i poggi e le ville. Apre i balconi,
Apre terrazzi e logge la famiglia:

Tintinnío di sonagli; il carro stride

Del passeggier che il suo cammin ripiglia. Si rallegra ogni core.

Si dolce, si gradita

Quand' è, com'or, la vita?

Quando con tanto amore

L'uomo a' suoi studi intende?

O torna all' opre? o cosa nova imprende? Quando de' mali suoi men si ricorda? Piacer figlio d' affanno;

Gioia vana,

ch'è frutto

Del passato timore, onde si scosse

E paventò la morte

Chi la vita abborria;

Onde in lungo tormento,

Fredde, tacite, smorte,

Sudâr le genti e palpitâr, vedendo
Mossi alle nostre offese

Folgori, nembi e vento.

O natura cortese,
Son questi i doni tuoi,
Questi i diletti sono

Che tu porgi ai mortali. Uscir di pena
È diletto fra noi.

Pene tu spargi a larga mano; il duolo
Spontaneo sorge: e di piacer, quel tanto
Che per mostro e miracolo talvolta

Nasce d'affanno, è gran guadagno. Umana
Prole cara agli eterni! assai felice
Se respirar ti lice

D'alcun dolor; beata

Se te d'ogni dolor morte risana.

XXV.

IL SABATO DEL VILLAGGIO.

La donzelletta vien dalla campagna, In sul calar del sole,

Col suo fascio dell'erba; e reca in mano Un mazzolin di rose e di viole,

Onde, siccome suole,

Ornare ella si appresta

Dimani, al di di festa, il petto e il crine.
Siede con le vicine

Su la scala a filar la vecchierella,
Incontro là dove si perde il giorno;
E novellando vien del suo buon tempo,
Quando ai di della festa ella si ornava,
Ed ancor sana e snella

Solea danzar la sera intra di quei
Ch'ebbe compagni dell'età più bella.
Già tutta l'aria imbruna,

Torna azzurro il sereno, e tornan l'ombre
Giù da' colli e da' tetti,

Al biancheggiar della recente luna.
Or la squilla dà segno
Della festa che viene;
Ed a quel suon diresti

I fanciulli gridando
Su la piazzuola in frotta,
E qua e là saltando,

Fanno un lieto romore:

E intanto riede alla sua parca mensa,
Fischiando, il zappatore,

E seco pensa al di del suo riposo.

Poi quando intorno è spenta ogni altra face, E tutto l'altro tace,

Odi il martel picchiare, odi la sega

Del legnaiuol, che veglia

Nella chiusa bottega alla lucerna,
E s'affretta, e s'adopra

Di fornir l'opra anzi il chiarir dell'alba.
Questo di sette è il più gradito giorno,
Pien di speme e di gioia:

Diman tristezza e noia

Recheran l'ore, ed al travaglio usato
Ciascun in suo pensier farà ritorno.
Garzoncello scherzoso,

Cotesta età fiorita

È come un giorno d'allegrezza pieno,
Giorno chiaro, sereno,

Che precorre alla festa di tua vita.
Godi, fanciullo mio; stato soave,
Stagion lieta è cotesta.

Altro dirti non vo'; ma la tua festa

Ch' anco tardi a venir non ti sia grave.

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