Già la stella di Venere apparia Dinanzi all'altre stelle ed alla luņa. Tacea tutta la piaggia, e non s'udia Se non il mormorar d'una laguna, E la zanzara stridula, ch'uscía Di mezzo alla foresta all' aria bruna: D'espero dolce la serena imago Vezzosamente rilucea nel lago.
Taceano i topi ancor, quasi temendo I granchi risvegliar, benchè lontani, E chetamente andavan discorrendo Con la coda in gran parte e con le mani, Maravigliando pur di quell'orrendo Esercito di bruti ingordi e strani, E partito cercando a ciascheduna Necessità della comun fortuna.
Morto nella battaglia era, siccome Nel poema d'Omero avete letto, Mangiaprosciutti, il qual credo per nome Mangiaprosciutti primo un dì fu detto; Intendo il re de' topi; ed alle some Del regno sostener nessun eletto Avea morendo, e non lasciato erede Cui dovesser gli Dei la regia sede. Ben di lui rimaneva una figliuola Leccamacine detta, a Rodipane
Sposata, e madre a quello onde ancor vola Cotanta fama per le bocche umane, Rubabriciole il bel, dalla cui sola Morte il foco scoppiò fra i topi e rane: Tutto ciò similmente o già sapete,
Ma un tedesco filologo, di quelli Che mostran che il legnaggio e l'idioma Tedesco e il greco un dì furon fratelli, Anzi un solo in principio, e che fu Roma Germanica città, con molti e belli Ragionamenti e con un bel diploma Prova che lunga pezza era già valica Che fra topi vigea la legge salicą.
Che non provan sistemi e congetture E teorie dell'alemanna gente?
Per lor, non tanto nelle cose oscure L'un di tutto sappiam, l'altro nïente, Ma nelle chiare ancor dubbi e paure E caligin si crea continuamente: Pur manifesto si conosce in tutto Che di seme tedesco il mondo è frutto. Dunque primieramente in provvedere A sè di novo capo in quelle strette Porre ogni lor pensier le afflitte schiere Per lo scampo comun furon costrette: Dura necessità ch'uomini e fere Per salute e servaggio sottomette. E della vita in prezzo il mondo priva Del maggior ben per cui la vita è viva. Stabile elezion per or non piacque Far; nè potean; ma differire a quando In topaia tornati, ove già nacque La più parte di lor, la tema in bando Avrian cacciata, e le ranocchie e l'acque E seco il granchio barbaro e nefando, Nè credean ciò lontan lunga stagione,
Intanto il campo stesso, e la fortuna Commetter del ritorno, e dei presenti Consigli e fatti dar l'arbitrio ad una Militar potestà furon contenti.
Così quando del mar la vista imbruna, Popol battuto da contrari venti Segue l'acuto grido onde sua legge Dà colui che nel rischio il pin corregge. Scelto fu Rubatocchi a cui l'impero Si desse allor di mille topi e mille. Rubatocchi, che fu, come d' Omero Sona la tromba, di quel campo Achille. Lungamente per lui sul lago intero Versâr vedove rane amare stille;
E fama è che insin oggi appo i ranocchi Terribile a nomar sia Rubatocchi.
Nè Rubatocchi chiamería la madre Il ranocchin per certo al nascimento, Come Annibale, Arminio odi leggiadre Voci qui gir chiamando ogni momento: Così di nazïon quello, che padre E d'ogni laude, altero sentimento, Colpa o destin, che molta gloria vinse Già trecent'anni, in questa terra estinse. Mancan Giuli e Pompei, mancan Cammilli E Germanici e Pii, sotto il cui nome Faccia ai nati colei che partorilli A tanta nobiltà, lavar le chiome? A veder se alcun di valore instilli In lor la rimembranza, e se mai dome Sien basse voglie e voluttà dal riso
Intanto à studio là nel Trasimeno . Estranio peregrin lava le membra, Perchè la strage nostra onde fu pieno Quel flutto con piacer seco rimembra: La qual, se al ver si guarda, nondimeno Zama e Cartago consolar non sembra: E notar nel Metauro anco potria Quegli e Spoleto salutar per via.
Se questo modo, ond' hanno altri conforto, Piacesse a noi di seguitar per gioco, In molt' acque potremmo ire a diporto, E di più selve riscaldarci al foco, Ed in più campi dall'occaso all'orto Potremmo, andando, ristorarci un poco, E tra via rimembrar più d'un alloro E nelle nostre e nelle terre loro.
Tant'odio il petto agli stranieri incende Del nome italian che di quel danno Onde nessuna gloria in lor discende, Sol perchè nostro fu, lieti si fanno. Molte genti provâr dure vicende, E prave diventâr per lungo affanno; Ma nessuna ad esempio esser dimostra Di tant' odio potría come la nostra.
E questo avvien perchè quantunque doma, Serva, lacera segga in isventura,
Ancor per forza italïan si noma Quanto ha più grande la mortal natura, Ancor la gloria dell'eterna Roma Risplende si, che tutte l'altre oscura, E la stampa d' Italia, invan superba
Nè Roma pur, ma col mental suo lume Italia inerme, e con la sua dottrina, Vinse poi la barbarie, e in bel costume Un'altra volta ritornò regina;
E del goffo stranier, ch'oggi presume Lei dispregiar, come la sorte inchina, Rise gran tempo, ed infelici esigli L'altre sedi parer vide a'suoi figli. Senton gli estrani ogni memoria un nulla Esser a quella ond'è l'Italia erede; Sentono ogni lor patria esser fanciulla Verso colei ch'ogni grandezza eccede; E veggon ben se strozzate in culla Non fosser quante doti il ciel concede, Se fosse Italia ancor per poco sciolta, Regina torneria la terza volta.
Indi l'odio implacato, indi la rabbia, E l'ironico riso ond' altri offende Lei che fra ceppi, assisa in sulla sabbia, Con lingua nè con man più si difende. E chi maggior pietà mostra che n'abbia, E di speme fra noi gl' ignari accende, Prima il Giudeo tornar vorrebbe in vita Che all'italico onor prestare aita.
Di Roma là sotto l'eccelse moli, Pigmeo, la fronte spensierata alzando, Percote i monumenti al mondo soli Con sua verghetta il corpo dondolando; E con suoi motti par che si consoli La rimembranza del servil cacciando Ed è ragion ch'a una grandezza tale
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