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di lanciarsi in un teatro più conveniente alla sua sete di gloria, di sottrarsi alla sua famiglia, cui lo tenevano avvinto i più dolci ed antichi affetti, ma dove gli pareva di essere contrastato, spiato e di non possedere tutta quella indipendenza, di cui sentiva il bisogno. Lasciò adunque Recanati in sullo scorcio del 1822 e venne a Roma dove sperava di trovare una occupazione che gli procurasse il modo di vivere, senza essere di peso alla sua casa, ed ivi si persuase che il mondo non era fatto per lui, che il suo bisogno d'amore, d'entusiasmo, di vita, non trovava cosa che soddisfare il potesse, s'incontrò in donne che gli facevano stomaco, in uomini che gli facevano rabbia e misericordia, e al contatto della società si accorse che egli era più fatto per disprezzare che per ammirare. L'illustre consigliere Niebhur, che allora trovavasi in Roma, inviato straordinario della corte di Prussia, si adoperò presso il cardinale Consalyi per ottenergli un impiego, e questi gli offerse la prelatura e le speranze di un rapido avanzamento, ch' egli rifiutò per tornare l'anno seguente in seno dei suoi, l'amore de' quali nella lontananza si faceva in lui sentire più forte. Egli fece ritorno a Reca

tito; egli aveva oramai abbandonata ogni speranza della vita, aveva sentito a lungo il vuoto della esistenza come cosa reale che fortemente premesse l'anima sua, e il nulla delle cose era la sola cosa che per lui esistesse. Si lagnava, che la società non cercasse il modo di appagare tutte le illusioni dell' uomo, perchè la felicità di lui in nulla di reale è riposta, vedeva, che ogni oggetto, verso cui si lanciava ardentemente, gli sfuggiva, perchè troppo inferiore alla grándezza del suo desiderio e lo lasciava nel disinganno. S'accorgeva per fino nei suoi studi della mutazione in lui avvenuta, ogni cosa che tenesse di affettuoso e di eloquente lo annoiava e gli sapeva di scherzo e di fanciullaggine ridicola: non cercava altro più fuorchè il vero, quello stesso vero, che già tanto aveva odiato e detestato.

Nel 1825 lascia di nuovo il paese natale per recarsi a Milano, dove l'invitava l' editore A. F. Stella per attendere ad un' edizione delle opere intere di Cicerone. Si ferma in Bologna dove gli pare di trovare cortesia, accoglienze e premure, di cui in Roma non aveva veduto alcun saggio. A Milano tutto gli spiace, il fare magnifico e diplomatico, che regna in tutte le relazioni sociali, il nessun carattere locale degli uomini, il clima troppo più rigido,

che alla sua complessione si potesse convenire, il genere stesso dell'occupazione, cui lo Stella lo aveva invitato. Eccolo di nuovo a Bologna, dove egli porta con sè una nuova infermità contratta nel viaggio e non potuta vincere, un' infiammazione d' intestini, e dove non bastandogli la provvisione datagli dallo Stella, impiega alcune ore del giorno a dare lezione di latino e di greco. Il desiderio di ritemprarsi negli affetti della famiglia e di attendere più comodamente alla Crestomazia italiana da lui promessa allo Stella, coll' aiuto della copiosa biblioteca paterna, lo condusse ancora a Recanati in sul finire del 1826; ma travagliato continuamente dai suoi malori fisici, sente fra pochi mesi rinascere nell' animo la noia di quel soggiorno e di quella città, e sperando di trovare la salute e la pace in un clima migliore passa di nuovo a Bologna e due mesi dopo a Firenze dove i suoi occhi vanno sempre peggiorando e non gli lasciano metter piede fuori della soglia della sua camera. Il clima di Pisa, cui egli cercò nell' inverno, gli permette di passeggiare ogni giorno, di ristorare alquanto le forze; ritorna colla calda stagione in Firenze, dove sente l'impossibilità di applicare a cosa

reiterate istanze del padre, ritornava nelle sue braccia. Il freddo clima di Recanati accresce la debolezza delle sue forze mentali, ed aggiunge alle antiche infermità una grave debolezza dei nervi, ond' egli corre un'altra volta a Firenze, dove rimane dal maggio 1830 fino all'ottobre del 1831, in cui parte per recarsi a Roma ove passare l'inverno, ma appena giunto, la sua dimora gli pare un esiglio e torna a desiderare Firenze, alla quale rivola il marzo dell'anno seguente, e di là nell'ottobre del 1833 parte per recarsi a Napoli, a ciò consigliato dai medici, che reputavano quel clima poter giovare alla salute di lui, più che mai rovinata. Ma ivi egli non fa che provare nuovi dolori, ai quali non trova altro conforto, che le cure affettuose dell'amico suo Antonio Ranieri, il suo corpo si va lentamente dissolvendo, finchè la morte lo toglie ai lunghi dolori della vita nell' aprile del 1847.

Di tutti questi stadi della vita del Leopardi si vedono palesi le tracce nelle sue opere, ma specialmente nelle morali e nelle liriche, le quali più ritengono del soggettivo e maggiormente ci svelano l'animo dello scrittore. Diremo soltanto delle seconde, poichè di esse

chè l'espressione poetica colla sua terribile potenza då forma più scolpita e più viva ai sentimenti interiori; alle più antiche delle quali noi risalendo, troveremo il poeta in quella sua prima età di entusiasmo e di vita, quando in lui fervevano potentissime le passioni del sapere, della gloria e dell' amore e le illusioni danzavano leggiadre innanzi alla sua fantasia. Allora egli cantò le sventure della sua patria e le speranze del risorgimento di lei e a destare gli Italiani dal vergognoso letargo ed accenderli nel desiderio di fatti gloriosi e al sacrificio della propria vita pel bene della patria, si fece a ripetere l'inno che Simonide intuonava in onore dei forti caduti con Leonida alle Termopili, inno perduto da secoli; ma che parve dettato al Leopardi dalla stessa magnanima ombra del Greco poeta. La novella, che i Fiorentini per riparare all'antica vergogna volevano innalzare in Santa Croce un degno monumento al padre dell'italiana poesia, accese di nobile entusiasmo l'animo suo, ond'egli esortò gli Italiani ad onorare la memoria di quei sommi che di tanta gloria circondarono la patria loro, a cercare nel passato gli esempi di futura virtù e grandezza; pianse

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