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Dalle al muro: oh per certo e' gli vuol male
Ve' come gli s'avventa: animo: guata
Se non par ch'aggia a farne una focaccia.
Oh gli è pur duro, Manzo, quel rivale.
Va, Coso, e 'l tasta d'una tentennata,
E gli 'nfuna le zampe e glien' allaccia.
E s'oggi non gli schiaccia
Il maglio quelle corna e quel capone,
Vo' gir sul cataletto a pricissione.

Sonetto II.

Su scaviglia la corda. Oh ve', gavazza
E tripudia e ballonzola e saltella:
Non de' saper che 'l bue qui si macella:
Via, per saggio, lo tanfana e lo spazza;
Via, gli fruga la schiena e gli spelazza:
E' dà nel foco giù da la padella.

Le corna gli 'mpastoia e gli 'ncapella;
Ammanna la ferriera, e to' la mazza.
Su, Cionno, ravviluppati 'l grembiale,
Gli avvalla il capo, cansa la cozzata,
E giuca de la vita e de le braccia.
Ve', s'arresta e s'accoscia: orsù, non vale:
Gli appicca, Meo, sul collo una bacchiata,
Fa che risalti in piede, e gli t'abbraccia;
E' tira, e gli ricaccia

Le corna abbasso, e senza discrezione

SONETTI

IN PERSONA

DI SER PECORA FIORENTINO BECCAIO

(1817)

Questi sonetti, composti a somiglianza dei Mattaccini del Caro, furono fatti in occasione che uno scrittorello, morto or sono pochi anni, pubblicò in Roma una sua diceria; nella quale rispondendo ad alcune censure sopra un libro divulgato in un giornale, usava parole indegne contro due nobilissimi letterati italiani che ancora vivono. Come nei Mattaccini del Caro sotto l'allegoria del gufo e del castello di vetro dinotasi il Castelvetro, parimente in questi Sonetti disegnasi il detto scrittorello sotto l'allegoria del manzo. Il nome dell' beccaio è tolto dalla Cronica di Dino Compagni, la quale fa menzione di un beccaio fiorentino di que' tempi, detto per soprannome il Pecora.

Sonetto I.

Il Manzo a dimenarsi si sollazza,
Cozza col muro e vi si dicervella,
Con la coda si scopa e si flagella,
Scote le corna e mugge e soffia e razza.
Con l'unghia alza la polve e la sparnazza;
Bassa 'l capo, rinculca e s'arrovella,
Stira la corda, strigne la mascella

Dalle al muro: oh per certo e' gli vuol male
Ve' come gli s'avventa: animo: guata
Se non par ch'aggia a farne una focaccia.
Oh gli è pur duro, Manzo, quel rivale.
Va, Coso, e 'l tasta d'una têntennata,
E gli 'nfuna le zampe e glien' allaccia.
E s'oggi non gli schiaccia
Il maglio quelle corna e quel capone,
Vo' gir sul cataletto a pricissione.

Sonetto II.

Su scaviglia la corda. Oh ve', gavazza
E tripudia e ballonzola e saltella:
Non de' saper che 'l bue qui si macella:
Via, per saggio, lo tanfana e lo spazza;
Via, gli fruga la schiena e gli spelazza:
E' dà nel foco giù da la padella.

Le corna gli 'mpastoia e gli 'ncapella;
Ammanna la ferriera, e to' la mazza.
Su, Cionno, ravviluppati 'l grembiale,
Gli avvalla il capo, cansa la cozzata,
E giuca de la vita e de le braccia.
Ve', s'arresta e s'accoscia: orsù, non vale:
Gli appicca, Meo, sul collo una bacchiata,
Fa che risalti in piede, e gli t' abbraccia;
E' tira, e gli ricaccia

Le corna abbasso, e senza discrezione

Sonetto III.

Ve' che 'l tira, e s'indraca e schizza e 'mpazza:
Dagli 'n sul capo via, che non lo svella;
Su, gli acciacca la nuca e la sfracella.

Ma ve' che 'l maglio casca e non l'ammazza. Oh che testa durissima, o che razza

Di bestia! i vo' morir s' ha le cervella.
Ma gli trarrò le corna e le budella
S'avesse la barbuta e la corazza.
Leva ' maglio, Citrullo, un'altra fiata,
E glien' assesta un'altra badïale,
E l'anima gli sbarbica e gli slaccia.
Fagli de la cucuzza una schiacciata:
Ve' che basisce, e dice al mondo, vale;
Suso un'altra, e 'l sollecita e lo spaccia.
In grazia, Manzo, avvaccia:
A ogni mo' ti bisogna ire al cassone,
Passando per li denti alle persone.

Sonetto IV.

E' fa gheppio. Su l'anca or lo stramazza,
L'arrovescia; e lo sgozza e l'accoltella:
Ve' ch'ancor trema e palpita e balzella,
Guata, che le zampacce in aria sguazza.
Qua, chè gia 'l sangue spiccia e sgorga e sprazza,
Qua presto la barletta o la scodella;
Reca qual cosa, o secchia o catinella-

Corri pel calderotto o la stagnata,:

Dà di piglio a la tegghia o a l'orinale;
Presto, dico, il malan, che ti disfaccia.
Di molto sangue avea quest' animale:
Mo' fagli fare un'altra scorpacciata,
E di vento l'impregna e l'abborraccia.
Istrigali e ti sbraccia:
Mano speditamente a lo schidone:
Busagli il ventre, e 'nzéppavi 'l soffione.

Sonetto V.

Senti ch'e' fischia e cigola e strombazza:
Gli è satollo di vento; or lo martella,
E 'l dabbudà su l'epa gli strimpella
E ne rintrona il vicolo e la piazza.
Ve' la pelle, al bussar, mareggia e guazza:
Lo spenzola pel rampo a la girella:
Lo sbuccia tutto quanto e lo dipella;
E'l disangua, lo sbatti e lo strapazza.
Sbarralo, e tra' budella e tra' corata,
Tra' milza, che per fiel più non ammale,
E l'entragno gli sbratta e gli dispaccia:
D'uno or vo' ch' e' riesca una brigata:
Gli affetta l'anca e 'l ventre e lo schienale,
E lo smembra, lo mozzica, lo straccia.
Togliete oh chi s'affaccia:
Ecco carni strafresche; ecco l'argnone:

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