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A voi, che di null'altro vi pascete,
Di cor gli lascio e ve ne fo presente.
Rise la rana e disse: Hai molta boria;
Ma dal ventre ti vien tutta la gloria.

Hanno i rannocchi ancor leggiadre cose
E ne gli stagni loro e fuor de l'onde. -
Ciascun di noi su per le rive crbose
Scherza a sua posta, o nel pantan s'asconde:
Però ch'al gener mio dal Ciel fu dato
Notar ne l'acqua e saltellar nel prato.
Saper vuoi se'l notar piaccia o non piaccia?
Montami in su le spalle: abbi giudizio;
Sta saldo: al collo stringimi le braccia,
Per non cader ne l'acqua a precipizio:
Così verrai per questa ignota via
Senza rischio nessuno a casa mia.

Così dicendo, gli omeri gli porse.
Balzovvi il sorcio e con le mani il collo
Del ranocchio abbracciò, che ratto corse
Via da la riva, e seco trasportollo,
Rideva il topo, e rise malaccorto
Finchè si vide ancor vicino al porto.
Ma quando in mezzo al lago ritrovossi
E videsi la ripa assai lontana,
Conobbe il rischio, si penti, turbossi,
Fortemente stringevasi a la rana;
Sospirava, piangea, svellava i crini
Or sè stesso accusando, ora i destini.
Voti a Giove facea, pregava il Cielo
Che soccorso gli desse in quell' estremo,
Tutto bagnato di sudore il pelo..

Che d'ospizio consorte io ti diventi,
Esser non può: diversa è la natura.
Tu di sguazzar ne l'acqua ti contenti;
Ogni miglior vivanda è mia pastura;
Frugar per tutto, a tutto porre il muso,
E viver d'uman vitto abbiamo in uso.

Rodo il più bianco pan, ch' appena cotto,
Dal suo cesto, fumando, a sè m'invita;
Or la tortella, or la focaccia inghiotto
.Di granelli di sesamo condita;
Or la polenta ingrassami i budelli,
Or fette di prosciutto, or fegatelli.
Ridotto in burro addento il dolce latte,
Assaggio il cacio fabbricato appena;
Cerco cucine, visito pignatte

E quanto all'uomo apprestasi da cena,
Ed or questo or quel cibo inzuccherato
Cred' io che Giove invidii al mio palato.

Nè pavento di Marte il fiero aspetto;
E se pugnar si dee, non fuggo o tremo.
De l'uomo anco talor balzo nel letto,
De l'uom ch'è si membruto, ed io nol temo;
Anzi pian pian gli vo rodendo il piede,
E quei segue a dormir, nè se n'avvede.
Due cose io temo: lo sparvier maligno,
El gatto, contra noi sempre svegliato.
S'avvien che 'l topo incorra in quell' ordigno
Che trappola si chiama, egli è spacciato ;
Ma più che mai del gatto abbiam paura:
Arte non val con lui, non val fessura.
Non mangiam ravanelli o zucche o biete:

A voi, che di null'altro vi pascete,
Di cor gli lascio e ve ne fo presente.
Rise la rana e disse: Hai molta boria;
Ma dal ventre ti vien tutta la gloria.

Hanno i rannocchi ancor leggiadre cose
E ne gli stagni loro e fuor de l'onde. -
Ciascun di noi su per le rive crbose
Scherza a sua posta, o nel pantan s'asconde:
Però ch'al gener mio dal Ciel fu dato
Notar ne l'acqua e saltellar nel prato.
Saper vuoi se'l notar piaccia o non piaccia?
Montami in su le spalle: abbi giudizio;
Sta saldo: al collo stringimi le braccia,
Per non cader ne l'acqua a precipizio:
Così verrai per questa ignota via
Senza rischio nessuno a casa mia.

Cosi dicendo, gli omeri gli porse.
Balzovvi il sorcio e con le mani il collo
Del ranocchio abbracciò, che ratto corse
Via da la riva, e seco trasportollo,
Rideva il topo, e rise malaccorto
Finchè si vide ancor vicino al porto.
Ma quando in mezzo al lago ritrovossi
E videsi la ripa assai lontana,
Conobbe il rischio, si pentì, turbossi,
Fortemente stringevasi a la rana;
Sospirava, piangea, svellava i crini
Or sè stesso accusando, ora i destini.
Voti a Giove facea, pregava il Cielo
Che soccorso gli desse in quell' estremo,
Tutto bagnato di sudore il pelo.

Dietro la si traea, girando l'occhio
Or a lidi, or a l'onde, or al ranocchio.
E diceva tra sè: che reo cammino,
Misero, è questo mai! quando a la meta,
Deh quando arriverem? quel bue divino
A vie minor periglio Europa in Creta
Portò per mezzo il torbido oceàno,
Che mi porti costui per un pantano.

E qui dal suo covil, con larghe rote,
Ecco un serpe acquaiolo esce a fior d'onda.
Irrigidisce il sorcio; e Gonfiagole
Là dove la palude è più profonda
Fugge a celarsi, e'l topo sventurato
Abbandona fuggendo a l'empio fato.
Disteso a galla, e vôlto sotto sopra,
Il miscrel teneramente stride,

Fe' con la vita e con le zampe ogni opra
Per sostenersi, e poi, quando s'avvide
Ch'era già molle, e che 'l suo proprio pondo
Forzatamente lo premeva al fondo:

Co' piedi la mortale onda spingendo
Disse in languidi accenti: Or se'tu pago,
Barbaro Gonfiagote. Intendo, intendo
L'arti e gl'inganni tuoi: su questo lago,
Vincermi non potendo a piedi asciutti,
Mi traesti per vincermi ne i flutti.

In lotta, al corso io t'avanzava; e m'hai
Tu condotto a morir per mera invidia.
Ma degno al fatto il guiderdone avrai;
Non senza pena andrà la tua perfidia.
Veggo le schiere, veggo l'armi e l'ira:

CANTO SECONDO

Leccapiatti, ch' allor sedea sul lido,
Fu spettator de l'infelice evento.
S'accapricciò, mise in vederlo un grido,
Corse, ridisse il caso; e in un momento,
Di corruccio magnanimo e di sdegno
Tutto quanto avvampò de' topi il regno.
Banditori correan per ogni parte
Chiamando i sorci a general consiglio.
Già concorde s'udia grido di Marte
Pria che di Rodipan l'estinto figlio,
Ch'in mezzo del pantan giacea supino,
Cacciasser l'onde a i margini vicino.

Il giorno appresso, tutti di buon'ora
A casa s'adunâr di Rodipane.

Stavano intenti, ad udir presti. Allora
Rizzossi il vecchio e disse: Ahi triste rane,
Che siete causa a me d'immenso affanno,
A noi tutti in comun, d'onta e di danno!
Ahi sfortunato me! tre figli miei
Sul più bello involò morte immatura.
Per gli artigli del gatto un ne perdei,
Lo si aggraffò ch' uscìa d'una fessura.
Quel mal ordigno onde crudele e scaltro
L'uom fa strage di noi, men tolse un altro.

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