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cità di simile impresa. Onde riuscito essendo a cittadini più onesti di sbaragliar la ciurma de' ri belli, stavan già per uccidere il giovine, allorch îl padre lagrimando li supplicò che in grazia sua volessero perdonargli la vita. Vennegli accordata ta preghiera colla condizione però, che di subito colui' sgombrasse la città, ed obbligaronsi con solenne giuramento tutti, il popolo, i vescovi e gli abati, che giammai non l'avrebbero riconosciuto per doge nè in vita nè dopo la morte del padre. Recossi egli a Ravenna, dove allestì sei vascelli di guerra e ajutato da Berengario II. colle sue piraterie fece tanto danno alla patria, che mortone di cordoglio l'attempato genitore, due mesi dopo il di lui esilio (958), il popolo sbigottito, assolvendo sè stesso dal precedente giuramento, con un convoglio di trecento navi in trionfo lo ricondusse a casa. Tostochè egli şi vide giunto al bramato onore, si diede a tiranneggiar la patria e ad esercitare le sue vendette. Ma nulla gli giovò l'essersi cinto di satelliti armati, poichè il popolo stanco ormai di più sofferire, dopo aver lungo tempo preparata la congiura, si sollevò finalmente nel 976, ed appiccò il fuoco alle case attigue al palagio ducale, sicchè rimasero incenerite quasi trecento abitazioni e parecchie chiese. Fu costretto il tiranno ad abbandonare il palagio, e fuggitosi co' pochi suoi sgherri, nella prima contrada s'imbattè in una truppa di nobili, che colle spade sguainate lo stavano attendendo. Presago già della morte, tremando lor disse: »Voi pure, o fratelli, sietevi uniti alla mia rovina? Deh, se mai v'offesi co' detti o co' fatti, vi supplico, che lasciandomi in vita, mi consediate ancor qualche termine, perch' io possa riparare i falli miei, e v'imprometto che nulla tralascerò per soddis

farvi appieno. Ma essi con torvo volto, Mostro scellerato, gridarono, troppo sei degno tu della morte, e niuno scampo troverai dalla giustissima nostra ira!<< e così dicendo, il trafissero. Nè bastò questa sola

vittima al furor popolare; poichè, oltre i custodi, fu trucidato con un colpo di lancia l'innocente di lui figliuolo, mentre la balia lo trafugava. Strascinaronsi i due cadaveri in sulla piazza del macello, ed ivi giacquero ignudi, finchè venner sotterrati da un pio cittadino per nome Giacomo Gradenigo.

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Corso poscia il popolo alla cattedrale di S. Pietro, elesse unanimamente doge Pietro Orseolo, uomo illustre per le sue virtù e per l'austera sua divozione, il qual per altro, come da taluni si pretende, era stato ano de' principali motori della cospirazione, ed acconsentito avea che le sue case fossero le prime, a cui s'appiccasse il fuoco. Poco avido di onori, com' era, in sulle prime rifiutò la dignità offertagli, finchè cedette alle iterate istanze de' cittadini, che in lui ormai riponevan le ultime loro speranze. Non ingannò egli siffatta aspettazione, anzi con instancabile zelo impiegò pel bene pubblico e il proprio senno, e grandissima parte del suo avere. Ma con tutto ciò non restava mai pago di sè medesimo, ponendosi a credere che troppo occupandosi delle cose mondane, non sarebbe mai giunto alla perfezione ch'ei bramava; e di tal parere destramente seppe valersi Guarino, abate di Cusano in Guascogna, il quale soggiornando a Venezia, con due anacoreti per nome Romoaldo e Marino, ammesso nella confidenza di Pietro, così un giorno gli favellò: »Vedo che da due anni în qua ritieni la tua dignità non per vaghezza di gloria mondana, ma per beneficare i sudditi tuoi. Nulla

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dimeno, se vuoi riuscire perfetto, abbandonar devi il mondo, e affrettarti a servire Dio in un qualche monastero.<< >>Hai ragione, rispose quegli, o padre egregio, e guadagnatore dell' anima mia: mi preme d'ubbidir quanto prima alle savie tue esortazioni; e chiedoti soltanto un breve termine, durante il quale io possa assettar le cose mie e dello stato, e poscia pigliando gli ordini sacri, militare a Dio.<< Concertata la bisogna, al giorno fissato l'abate ritornò a Venezia per prenderlo seco, e in sul far della notte, egli, il doge, ed il di lui genero Giovanni Morosini, senza saputa della moglie di Pietro, o di qualunque altra persona, segretamente usciron della città (979), e non lungi dal monastero di Sant' Ilario, tosatasi prima la barba e la capigliatura, montarono a cavallo, e in tutta fretta continuarono il loro viaggio sino in Guascogna, dove il doge fuggitivo terminò i suoi giorni nell' eremo di Romoaldo ( 997). Restò sbigottita la città di sì inopinato caso, e pianse la perdita di quell' ottimo principe, nutritore de' poveri, fautore del clero, e benevolo a tutti; e in appresso, essendo egli stato canonizzato dal pontefice, gli eresse degli altari.

Il più glorioso fra tutti i dogi antichi si fu Pietro Orseolo II., figlio del fuggitivo eremita (991 - 1008), per aver debellati in una sola espedizione i pirati di Narenta, e di Liesina, che fin da lungo tempo infestavan l'Adriatico. Il dì appunto dell' ascensione (998) avea egli salpato di terra con gran pompa, origine probabilmente della cerimonia poscia sì solenne, secondo la quale il doge accompagnato dalla signoria ogni anno in quel giorno montato sul Bucentoro, sposava il mare col gettarvi un anello d'oro. Ritornò Pietro coperto d'allori, ed onorato da que' di Zara e

di Pola col titolo di duca di Dalmazia, ritenuto in appresso da' suoi successori. Ma più gradita ancora gli fu la secreta visita, che gli fece il giovine Ottone III. desideroso di stringere amicizia con un uomo tanto da lui ammirato. Stette egli due giorni nascosto nel palagio ducale, e travestito da semplice cittadino; ed in segno di stima rilasciò in perpetuo alla repubblica il tributo d'un pallio solito di presentarsi agl' imperadori d'occidente. Nulla per se volle Pietro, sennonchè fossero protette le tenute de'Veneti in Terra ferma; e con ugual cortesia il Tedesco negava d'accettare i preziosi donativi offertigli, dicendo: Tolga Iddio, che alcuno possa rimproverarmi d'esser venuto qui per cupidigia e non unicamente per venerare S. Marco e per godere della tua amicizia.< Vinto però dalle preghiere del doge, tolse seco una seggiola d'avorio, un calice d'argento, e un' urna cisellata. Sol tre giorni dopo, radunato il popolo dinnanzi al palazzo, Pietro gli narrò, come aveva albergato il signore del mondo, e tutta l'assemblea esaltò con lieti applausi non meno la sapienza del suo principe, che la fiducia e bontà di Ottone. (1001)

Giunti che siamo al veder la Dalmazia ubbidire a Venezia, dobbiamo ristrignerci ad accennar soltanto le posteriori sue vicende, esortando la gioventù a ripigliare in età più matura lo studio della storia e degli ordini civili d'una repubblica, in cui le doti proprie de' cittadini per lunghissimo tempo erano la cura indefessa del pubblico bene, la maturità nei consigli, la costanza in mezzo alle sciagure, e la schiettezza de' costumi.

Nobilitarono il seguente tratto di tempo le famose battaglie co' Normanni (1034), le guerre sacro, e le

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conquiste dell' Oriente (1099), donde venne la prosperità del commercio, dopochè i Veneziani spinsero i legni loro oltre i liti dell' Adriatico, stati, la neta dell' età prima, e pigliarono corso le navigazioni di Grecia e dell' Asia minore, le quali per ultimo cominciarono a stendersi verso il Ponente uscendo fuori dello stretto, e penetrando insino alle più rimote spiagge di Tramontana. Merita poi riguardo la tutela presa di città italiane fin dal 1141, donde si cominciò ad aver mano nelle faccende di Terra ferma, e in quelle della Lega lombarda (1167).

Illustre in seguito fu la quinta crociata (1204), nella quale i Veneti capitanati dal nonagenario e cieco lor doge Arrigo Dandolo, unitamente a' Franchi presero la città di Costantinopoli, e diviso con quelli il così detto impero romano, intitolarono il doge signore d'una quarta parte e mezzo di quello. Scarsa notizia corre d'un mezzo secolo e più, nel quale una parte della Romania stette sotto il dominio veneziano, sicchè fuori di due battaglie di mare contro i Genovesi, che salvo alcuni brevi intervalli guerreggiarono co' Veneziani durante il continuo spazio di più che dugent' anni, (1214 1433) poco altro abbracciano le storie di memorabile, quantunque la repubblica allora si ritrovasse nella sua maggiore grandezza.

Fu nel 1296 che per opera del doge Pietro Gradenigo si serrò il gran consiglio, ossia restò fissato il numero delle schiatte nobili, che potean partecipare del governo, mentre i semplici cittadini non eran che sudditi de' patrizj. Il doge, intitolato serenissimno principe, rappresentava la regia maestà, come quello, la cui dignità era perpetua, e in somma venerazione presso tutti gli ordini de' cittadini, benchè

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