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CAPITOLO I.

Origine di Venezia.

NEL quinto secolo dell' era cristiana l'impero ro

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mano stava per soccombere all' impeto dei popoli barbari di origine per lo più germanica, Franchi, Alamanni, Sassoni, Borgognoni, Vandali, Goti e Longobardi, i quali, abbandonando le natie lor sedi, e spinti dall' alto fato di Dio a lontane spedizioni, da ogni lato invadeano, mettevano a sacco, e conquistavano l'Italia, e le altre province romane mal difese dagli abitatori troppo snervati omai dalla soverchia coltura, dal dispotismo, e dal lusso. Nè a tal corruzione avea potuto por argine la fede cristiana, perchè i di lei aderenti, invece di emendar la propria vita a norma de' santi precetti di quella, d'assai s'eran traviati dalla primiera sua semplicità, col perdersi in vane sottigliezze. Aveavi innoltre molti seguaci ancor del paganesimo, che in ogni modo scherniti e manomessi dal dominante partito, ripieni di segreto rancore, nulla più si curavan della patria, e tolta essendo a Roma dal suo piedestallo la statua della Vittoria, chiusi i tempj degli Dei, e cessati i sagrifizj, ad alta voce predicean la prossima rovina dell'impero. Quindi senza troppo esagerare le cose in tai lamen proruppe Salviano sacerdote di Mar

siglia (480).

,,Gli antichi Romani, dic' egli, atterrivan le altı nazioni, e le signoreggiavano; noi altro non cond sciamo se non che il timore e la codardia; vendut ci viene perfino l'uso di questa luce, e tutta la nostr salvezza non è che un vil traffico ognor ci riscat tiamo, e non siam liberi giammai. Quanto non ren diamo ridicoli noi stessi coll' appellar donativi l'or che a' barbari tremando paghiamo! Nulladimen in mezzo alla continua paura di essere inceppati uccisi, forsennati che siamo, altro non facciam che ridere, talchè mentre niuno per certo vuol perire niuno però s'argomenta di scampar dalla perdita nè si custodiscono le città, quantunque tutt' all' intorno cinte sieno dalle turbe nemiche. Vidi io medesimo a Treviri, città quattro volte espugnata, coperto il suolo d'ignudi cadaveri lacerati da' cani e dagli avoltoj, ma intantochè dal fetor della morte esalavasi nuova morte, i pochi nobili sopravvissuti all' eccidio della patria, in rimedio quasi di tale sciagura chiedevano agli imperanti i giuochi circensi da celebrarsi, se non erro, sovra le ossa, e il sangue degli estinti lor concittadini."

„E nel mentre stesso che gran parte della romana repubblica è già morta, o trae gli ultimi sospiri, l'altra che par viva ancora, va lentamente spirando, come strozzata dalle empie mani di que' ladroni pubblici, che sotto il nome di magistrati, curiali, difensori, usano ogni maniera d'angarie, di rapine, di violenze contro i deboli, gli orfanelli e le vedove. Che maraviglia quindi, se molti, benchè di nascita non bassa, e liberalmente educati, si ricoveran già presso gl'inimici per sottrarsi alle persecuzioni, che ognidì li minacciano? Così il nome di cittadino ro

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mano, che altre volte tanto solea pregiarsi, ora si ributta, e si schifa, nè tiensi a vile soltanto, ma sembra quasi abbominevole, dimodochè gran parte dell' impero è abbandonata omai alla desolazione, allo stupore, alla maladizione del cielo!"

Che se tale era lo stato d'Italia, null' altro potea recarle salute, sennon l'esser rigenerata appunto da quelle nazioni straniere, le quali conservando tuttavia il natio vigore, ma rese già alquanto più umane dal cristianesimo, che con pura fede, e senza sottigliezze abbracciato aveano, vennero a stabilirsi in quelle belle contrade. Fondaronvi nuovi governi, poichè alle passaggere invasioni d'Alarico, di Radegaiso, d'Attila, e di Genserico successero i regni di Odoacre (476), di Teodorico il grande (492) e degli altri re ostrogoti, a' quali dopo il breve dominio de' Greci sottentrarono i Longobardi(568), soggiogati anch' essi da' Franchi sotto Carlomagno (774). Ma da tutte queste rivoluzioni, che non poterono a meno di disfar molti venerandi avanzi dell' antichità, e coprire spesse fiate di lutto i viventi, sviluppossi infine la libertà delle cittadinanze italiane, si formò una nuova lingua non men bella e maschia della madre, risorsero le arti e le scienze, talchè l'Italia rigenerata gareggiò coll' antica Grecia, e in ogni cosa divenne la maestra delle altre nazioni europee.

Quella città però, la quale poco o nulla dovette all' impulso, che le altre riceverono da' Germani rimescolati co' primieri abitanti, si fu Venezia, che fondata da soli Italiani, e quindi solita a chiamarsi unica legittima figlia di Roma, giunse a una grandezza tale, che anco dopo la fatal sua caduta ci empie d'am-

mirazione profonda. Scarsi ne furono i principj e miserandi, poichè quando il flagello di Dio, Attila, re degli Unni nel 452 con settecento mila guerrieri invase furibondo l'Italia, e distrusse Aquileja, Concordia, Altino e Padova, molti abitanti di quella provincia, appellata già Venezia, si rifuggirono sopra le isolette delle lagune, dove sicuri da ogni forza nemica vivevan della pescagione, e del traffico che facevan col sale da loro fabbricato, coi vini, e coll' oglio d'Istria. Dodici eran le isole da essi occupate, ognuna delle quali avea il proprio suo tribuno, che radunati talora in una dieta trattavan gli affari comuni di codesta repubblica federativa, chiamata Venezia marittima. Attirava essa già verso il 500 gli sguardi di Teodorico il grande, il quale lontano dal voler soggiogare, quegl' isolani industriosi, lor fece scrivere una graziosa lettera dal suo Cassiodoro, in cui assai fuor di proposito fa sfoggio di barbara eloquenza per depingere a' que' semplici repubblicani il tranquillo e felice loro stato. Accresciutasi dipoi la popolazione di quegli asili della libertà dopo l'irruzione de' Longobardi (568), stabilitosi a Grado il patriarca d'Aquileja (606) fondata la città d'Eraclea, il cui sito ormai s'ignora, benchè allora fosse la capitale della confederazione, ed in essa si tenessero le radunanze de' tribuni, dovettero colla crescente opulenza nascere de' dispareri, che facilmente avrian potuto cagionare la rovina della repubblica; laonde i Veneti tutti unitamente al patriarca, e ai vescovi loro per comune consilio decretarono, esser cosa più onorata ed utile il viver dipoi sotto un doge solo, che sotto più tribuni, e dopo matura deliberazione innalzarono a quel grado eminente un uomo perito ed illustre, per nome Paulizio Anafesto. (697)

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