XXXI. Il Cancro ardea passata la sest' ora, Vid' io Colei, che 'l ciel di se innamora E 'n più donne far festa, e l'aureo vello Le cingea 'l capo, in guisa che capello Del vago nodo non usciva fuora. Nettuno, Glauco Forco 9 e la gran Teti Dal mar lei riguardavan sì contenti, Che dir parevan: Giove altro non voglio. Io da un ronchio fiso agli occhi lieti Si adoppiať avea i sentimenti Ch' un sasso parevamo io e lo scoglio. XXXII. Su la poppa sedea d' una barchetta XXXIII. Che chi s'aspetti con piacer i fiori, E per le selve gli uccelletti udire Io non son quel; ma come io sento fuori La quale invita sì col suo diletto Che non mel fa alcun' altra stagione, E che io vadia là mi è interdetto Da lei che può di me quel che le piace. XXXIV. In tra 'l Barbaro monte, e 'l mar Tirreno Sied' il lago d' Averno intorniato Da calde fonti e dal sinistro lato Gli sta Pozzuolo, ed a destro Miseno • ་ . Questi colla bellezza sua mi spoglia Ogn' anno nella più lieta stagione A se la chiama, ed io contra mia voglia Vol. IV. D XXXV. Poco senno ha chi crede la fortuna O con prieghi o con lacrime piegare, E molto men chi crede lei fermare Con senno con ingegno, o arte alcuna Poco senno ha chi crede a far la luna A discorrere il ciel per suo sonare, E molto men chi ne crede portare, Morendo seco l'or che qui raguna Ma più ch' altri mi • par matto colui Ch' a femina, qual vogli, il suo onore Sua libertà e la vita commette . Elle donne non son Senza pietà senza fè ma doglia altrui senz' amore Liete del mal di chi più lor credette XXXVI. Dura cosa è ed orribile assai E'l corso della vità è breve ch' hai; E volger non si può nè dargli posa : Nè qui si vede cosa sì giojosa Che il suo fine non sia lacrime e guai Dunque perchè con operar valore Non c'ingegniamo di stender la fama E con quella far lunghi i brevi giorni ? Questa ne dà, questa ne serve onore Questa ne lieva dagli anni la squama, Questa ne fa di lunga vita adorni. L'alta speranza, XXXVII. che li miei martiri . Soleva mitigare alcuna volta De' dolci mia pensier fatt' ha sospiri » Rabbia per gli occhi fuor dal cor disciolta Oh s' io potessi creder di vedere XXXVIII. All' ombra di mille arbori fronzuti, In abito leggiadro e gentilesco Con gli occhi vaghi e col cianciar donnesco Lacci tendea da lei prima tessuti De' suoi biondi capei, crespi, e soluti Al vento lieve in prato verde e fresco Un' Angioletta, a quai giungeva vesco Tenace Amor, ed ami aspri ed acuti ; Da' quoi, chi v' incappava lei mirando Invan tentava poi lo svilupparsi ; Tant era l'artificio ch' ei teneva . Ed io lo so, che me di me fidando Più che 'l dovere, infra i lacciuoli sparsi Fui preso da virtù, ch' io non vedeva . XXXIX. Misero me ch' io non oso mirare Per soverchio disio nel riguardare, Tra questi estremi sto, nè so che farmi, O arder tutto lor mirando fiso, O di freddo morire altro guardando : L'un mi duol men, ma troppo grave parmi, Da cui salute spero, esser ucciso E più duro mi par morir guardando XL. il cui fulgore Quella splendida fiamma, Che 'l troppo lume e 'l debile valore Nè sa nè vede, d'ogni ragion fuore. Discuovre ciò che nasconder si crede |