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palatino, essendochè quelli che conversano nelle corti regali parlano sempre con volgare illustre; lo chiama finalmente curiale, perchè è quasi una ponderata regola delle cose che s' hanno a fare, e perchè tutto quello che nelle azioni nostre è ben ponderato, e perciò conforme alla legge, può chiamarsi curiale. E come si può trovare un volgare ch'è proprio di Cremona, uno ch'è proprio di Lombardia, ed un altro ch'è proprio di tutta la sinistra parte d'Italia, così egli dice potersi trovare quello ch'è proprio di tutta Italia. E se il primo si chiama cremonese, il secondo lombardo, e il terzo di mezza Italia, così questo, ch'è di tutta Italia, dee chiamarsi volgare italiano; e questo, egli esclama, è veramente quello che hanno usato gl'illustri dottori, che in Italia hanno fatto poemi in lingua volgare. Qui termina il primo libro, ch' è il più importante, si per la storia della nostra lingua, sì per la vita e per le opinioni di Dante.

Nel libro secondo cerca l'autore, se tutti gli scrittori possano e debbano usare il volgare illustre, e conchiude che solo i sapienti debbano usarlo. Cerca in quali materie questo illustre linguaggio debba essere adoperato, e trova che solo in tre cose, cioè nel trattare della gagliardezza dell' armi, dell'ardenza dell' amore e della regola della volontà, o, per ripeterlo con esso lui più concisamente, dell' armi, dell' amore e della rettitudine; perciocchè essendo questo volgare ottimo sopra tutti gli altri, consegue che solamente le ottime materie siano degne d' esser in esso trattate. Viene poi a dire in qual modo debba adoperarsi; e, lasciata la prosa, tratta delle tre forme di poesia allora usitate, il sonetto, la ballata e la canzone, e conchiude che la canzone è il modo più nobile che per lui si cercava. Quindi è che della canzone tien egli discorso, e distinti brevemente i tre stili, il tragico, il comico e l'elegiaco, parla a lungo de' vocaboli, de' versi, delle stanze e delle rime, onde compor si dee la canzone. Nella qual trattazione prescrive che le canzoni elegiache cominciar debbano col settenario, e le tragiche coll' endecasillabo, come altresì coll' endecasillabo terminar debba ogni canzone. E dicendo il verso d' undici piedi sopra tutti gli altri nobilissimo, e chiamando rozzi i versi di sillabe pari, n' esclude insiem con questi il trissillabo e il novenario (ch' è il trissillabo triplicato), e concede appena che nelle grandi canzoni si frammettano agli endecasillabi due quinarii ovvero alcuni pochi settenarii per ogni stanza. Loda Gotto mantovano suo coetaneo, perchè nella prima stanza della canzone lasciava uno o due versi scompagnati, che ripigliava poi nella seconda, e facea con essi consuonare. E quantunque dica le desinenze degli ultimi versi esser bellissime se in rime accordate si chiudano, pure

dà al poeta ogni licenza d' ordinarle a suo talento, purchè sia in esse una bella concatenazione, e si schivino le soverchie ripetizioni. Qui termina il libro secondo, il quale, poichè non

1 II p. M. Giovanni Ponta disse, che se quest' analisi del secondo libro vuol lodarsi per concisione, pure per più mende si mostra diffet»tosa nel suo concetto, come quella che non riferisce tutta la mente di » Dante. » In ossequio di quell' onesto e valent' uomo riferisco qui appresso le sue parole, per le quali non solo viene a dichiararsi più minutamente l'intendimento di Dante rispetto ai tre stili, ma altresì a risolversi meglio ch'io non abbia fatto, e che dico più avanti, la questione dell'aver egli usato nella Commedia alcune di quelle voci, che qui nel volgar eloquio aveva dannate:

È vero che nel secondo libro si decide, che solo i sapienti debbono » adoperare il linguaggio illustre; ma ben lungi che vi sia stabilito che » debbano usarlo sempre, si pone invece al cap. IV l'avviso, che non lo > debbano adoperare nello stile comico, nel quale è dovere imposto dalla » discrezione, che sia scritto col volgare talora mediocre, talora umile, sic» come verrà insegnato nel quarto libro. Ecco le formali parole dell'autore: Si tragice canenda videntur, tunc adsumendum est vulgare illustre..... » Si vero comice, tunc quandoque mediocre, quandoque humile vulgare » sumatur; et ejus discretionem in quarto hujus reservamus ostendere.

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» È veramente gravissimo danno alle lettere italiane, che quest'opera » sia imperfetta. Se compievasi, Dante assegnava le regole al volgare di » qual sia composizione, sino al parlare d'una sola famiglia; dei quali tutti » si fa uso nella Commedia, chi ben ne cerca: - Ab ipso (parla Dante del volgare illustre) tamquam ab excellentissimo incipientes etc. tractabimus; quibus illuminatis, inferiora vulgaria illuminare curabimus, gradatim descendentes ad illum, quod unius familiæ proprium est. - Vedi la conclu»sione del libro I. Se ciò facevasi, avrebbe Dante insegnato l'uso dell'introcque, del manuchiamo, del mamma e babbo, del Lapi e Bindi, e » del pappo e dindi, che con iscandolo de' pusilli troviamo nella sua ComP media, ove trattasi di tutto, dalle cose celesti sino alle richieste all' uso » delle balie. Quindi, s'io veggo luce, argomentasi che quei sapienti i » quali scriveranno comice, come nella Commedia, ancorchè sapienti, non » dovranno usare il linguaggio illustre, ma si, e necessariamente, useranno Dora il volgare umile, ed ora il volgare mediocre. Ciò stesso aveva accen»> nato di fuga nel cap. I del lib. 11, quando contro chi vuole usato ovun» que e da tutti l'illustre favella disse: Sed hoc falsissimum est quia (si » noti bene la ragione fortissima) nec semper excellentissime poetantes debent » illud induere, sicut per inferius pertractatu perpendi poterit. E questo inferius pertractata è appunto il luogo arrecato sopra del cap. IV. —

Dun» que non è vero in tutta l'estensione de' termini, che Dante nel secondo libro di quest' opera conchiuda, che solo i sapienti debbono usarlo: - Ergo » optima loquela non convenit rusticana tractantibus, lib. II, cap. I. que ogni argomento ed ogni stile dee scegliere linguaggio a sẻ conve niente, chiunque sia lo scrittore,

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Dun

compie il trattato intorno lo stile tragico o altissimo, pare essere stato dall'autore lasciato imperfetto. Gli altri due libri poi, che avrebbon dovuto a questo seguire, dovean trattare degli altri due stili, il comico e l'elegiaco, cioè il mediocre e l'umile, nella quale occasione avrebbe parlato della ballata e del sonetto; e ciò rilevasi da alcune parole dell'autore medesimo (libro II, cap. IV, VIII e XIII.)

Molte gravi questioni sonosi agitate intorno quest' operetta di Dante, fino da quando essa comparve la prima volta alla luce; le quali note sono così, che mi dispensano dal farne l'istoria. Non lascierò peraltro di dire, che male, a parer mio, s'è finor quistionato; perciocchè gli uni hanno voluto che le opinioni da Dante in questo libro emesse siano tuttequante

>> Parmi poi molto lungi dal vero quella asserzione, che Dante stabili »sca che l'illustre linguaggio debba essere adoperato nel trattare dell' armi, » dell' amore e della rettitudine. L'autore avveduto aggiunse invece a tal » precetto una molto grave considerazione: ei disse che l'illustre parlare » debba venire assunto non già da chi canta l'armi o l'amore o la reltitu» dine, ma si bene da chi tria hæc pure cantare intendit, vel quæ ad ea di>> recte et pure sequuntur. Il perchè chi tratta cose misle d'armi e di fatti » privati e domestici; chi tratta d'amore non puramente, o di cose che di »rettamente a quelle non conseguitano, ma d'amore trattando per incidenza » spaziasi in tutte le storie antiche e moderne, in tutte le scienze, in tutte » le minuzie de fatti municipali de' fattarelli, della reggia e del postribolo, » del gabinetto filosofico e dell' umile tugurio del ciabattino; chi abbrac>> cia col suo dettato e l'empireo e l'abisso: questi, siccome non canta » puramente l'armi, l'amore e la rettitudine, nè le cose che puramente e » direttamente seguono quelle; così non deve nè può vestire i suoi pensieri » coi vocaboli, onde l'illustre volgare si compone. Dunque non si avvera che » Dante prescriva doversi adoperare il linguaggio illustre nel trattare del» l'amore, delle armi e della rettitudine; ma lo prescrive a chi vuol pura» mente cantare queste tre cose, ovvero quelle che direttamente e puramente » ad esse conseguitano. Che più? a chi cosi voglia cantare, viene prescritto » di comporre non Commedie, non ballate, non sonetti, nè altre maniere di » composizioni volgari, ma assolutamente dee ligare la canzone: - Si tragice » canenda videntur (avea detto verso la metà dello stesso cap. IV), tunc ad» sumendum est vulgare illustre, et per consequens cantionem ligare.

» Finalmente è manco quell' affermare, che Dante distinti brevemente i tre » stili, il tragico, il comico e l'elegiaco, parli a lungo de' vocaboli ec. Dante, » parlando de' tre stili, non passa a discorrere de' vocaboli e de' versi, senza » aver avvertito che ogni stile vuole usare un linguaggio a lui conveniente; » però dice in aggiunta : Si tragice canenda videntur, tunc adsumendum est vulgare illustre...... si vero comice, tunc quandoque mediocre, quandoque » humile vulgare sumatur.... si autem elegiace, solum humile nos oportet sume »re. - Per la qual cosa si aggiunga: distinti brevemente i tre slili ec..... in. segna qual volgare in ciascuno di essi convenga adoperare. »

vere e inconcusse; gli altri poi hanno preteso che l'opera, che oggi leggiamo, non sia quella dall' Alighieri dettata, ma un' altra tutt' affatto diversa, fabbricata a bella posta dal Trissino, e quindi dal Corbinelli pubblicata col nome di Dante. Di qui pure altre questioni aspre, intricate, interminabili. A me sembra peraltro, che mentre pressochè gratuita o sostenuta da deboli e vacillanti argomenti si è l'opinion di coloro, i quali per illegittima tengono quest' operetta di Dante, avvalorata da più argomenti e ben forti sia l'opinione degli altri, i quali genuina la dicono. Abbiamo or ora veduto che Dante in quest' operetta si studia di provare, come nessun volgare d'Italia fosse degno d' esser preso a modello dai sapienti scrittori, e d'esser chiamato illustre, cardinale, aulico e curiale. Or bene, il Villani che avea indubbiamente veduta l'opera, dice, che in essa con forte e adorno latino e con belle ragioni Dante ripruova tutti i volgari d'Italia. E noti il lettore che la maggiore appunto delle ragioni, le quali sono state messe in campo da chi tiene per l' illegittimità, è appunto questa di veder nell' opera rifiutati tutti i nostri volgari. Dante, e' dicono, avrebbe certo eccettuato il toscano, quel volgare cioè, nel quale avea egli dettato le maggiori delle opere sue, nè avrebbe magnificato il bolognese, il più aspro forse ed il più sconcio di tutti gl' italiani dialetti.

Ma per l'una parte, se Dante opinava che a modello d'un volgare illustre, a tutta Italia comune, non potesse esser preso nemmeno il dialetto toscano, non era egli il solo ad opinare così; perciocchè il Passavanti, ch' era fiorentino, e che scriveva il suo Specchio di vera penitenza, verso la metà del secolo XIV, quantunque dica che i Toscani parlano meno male degli altri popoli d' Italia, pure dice che nel volgarizzare la sacra Scrittura, la malmenano e troppo la insudiciano ed abbruniscono tra' i quali i Fiorentini con vocaboli squarciati e smanciosi, e col loro parlare fiorentinesco estendendola e facendola rincrescevole, la intorbidano e rimescolano con occi e poscia, aguale e vievocata, purdianzi e maipursì e berreggiate. E per altra parte, se Dante dice il dialetto bolognese essere il meno peggiore degli altri, pure non lo magnifica punto, nè dice esser esso l'ottimo: anzi dicelo differente affatto dalla lingua adoperata dagli illustri poeti bolognesi, ed eziandio in sè stesso variato, perciocchè quelli del Borgo di San Felice differivano dal parlare di quelli della strada maggiore. Che potrassi dunque concludere in questa questione? Ŏ che il dialetto di Bologna non era nel secolo XIII, quando

1 Tratl. della vanagl., cap. V §2.

2 Libro I, ca 9.

fioriva il suo Studio, e concorreanvi i maggiori sapienti, quello stesso ch'è oggi; o Dante errò, tenendolo per.il meno cattivo degli altri.

Vuolsi peraltro ben notare, che se Dante biasimava, siccome pur fece il Passavanti, il dialetto toscano, non intendea biasimarlo in ciò che veramente avea di buono, ma solo nella parte scurrile e plebea: lo che faremmo oggi pur noi, quando al parlare delle culte persone di Firenze volesse alcuno antepor quello che odesi in Mercato vecchio o ne' Camaldoli. Che in nessuna provincia, in nessuna città d'Italia non trovasse poi Dante quel linguaggio ch' ei chiamava illustre, cardinale, aulico, non farà meraviglia, perchè egli cercava un volgare, spoglio di rozzi vocaboli, di perplesse costruzioni, di difettive pronunzie, un linguaggio insomma in ogni sua parte perfetto e capace, secondo ch' ei dice, di fare colui che disvuole volere, e colui che vuole disvolere (libro I, cap. XVII.) Or di questa forma egregia, della quale avea il tipo nella sua mente, non poteva certo trovare il modello, nè alcuno forse lo troverà mai, ne' linguaggi parlati, ma solo, e talvolta, negli scritti. Questa forma egregia di linguaggio non potea venir fuori che da lui stesso, e da quegli altri pochi, come Cino e Guido, ch' egli tenea per compagni nell' ardua impresa, poichè non è dato che a un eccellente scrittore, concepire alti e nobili concetti, e significarli con proprii e convenienti vocaboli e modi. Qualunque volgare, per quanto sia bello, dolce e ricco, non dee considerarsi che come un prezioso metallo posto in mano d'un artefice, la cui industria gli dà forma, grazia, espressione. Ora, quantunque Dante deneghi al volgar fiorentino il primato, pure non può a meno di riconoscersi, che la preziosa materia ond' egli si valse per formare il volgare illustre (e non solo lui, ma Cino, Guido, il Petrarca e il Boccaccio), gli fu somministrata nella massima parte da Firenze. Ma le cause d'un fatto non ben si ravvisano se non dopo il fatto stesso: ond'è che Dante non seppe riconoscer quello che i suoi posteri riconobbero, attribuendolo più specialmente all'opera sua.

Nel secolo dell' Alighieri i dotti e i poeti non dettavano tutti le opere loro in una lingua comune italiana, com' oggi si pratica, ma la maggior parte di essi dettavanle in lingua latina (ch'essi dicevano scrivere in grammatica), ovvero ne' loro particolari inornati dialetti, od anche (e questo era di moda) nel provenzale linguaggio. Quindi il fine di Dante, scrivendo il libro dell'idioma volgare, era quello d' incitare tutti gl'italiani scrittori ad usare una medesima lingua comune, che egli però non chiama nè toscana, nè siciliana, ma italiana. In questo concetto io riconosco l'Alighieri; perchè, come in

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