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DANTIS ALIGHERII

FLORENTINI

MONARCHIA.

LA MONARCHIA

DI

DANTE ALIGHIERI

FIORENTINO.

DISSERTAZIONE

SULLA MONARCHIA.

Quando nel 1311 Arrigo di Lussemburgo imperatore romano scese in Italia, Dante a sostenere e ad afforzare il ghibellinismo, cui egli apparteneva già da più tempo, mandò in pubblico il presente trattato della Monarchia, il quale secondochè opina il Witte, era stato da lui scritto varii anni davanti. In esso si prefigge l'autor di provare: 1o che al ben essere dell' umana società e all' ottima disposizione del mondo è necessaria la monarchia; 2' che l'officio della monarchia, o sia dell'impero, appartenne ed appartiene di diritto al popolo romano, e per conseguenza al re de' romani, ossia all'imperatore; 3 che l'autorità del monarca dipende inmediatamente da Dio, e non da alcun suo ministro o vicario. 2

1 Vedi la nota, posta in fine di questa Dissertazione.

2 « Il libro della Monarchia di Dante, sebbene non quanto la Divina Commedia famoso, ha diritto di farsi apprezzare come parto di quella mente medesima, da cui usci in luce quel maraviglioso componimento.... La lettura delle opere d' Aristotile e dell' Aquinate avea rivolta la mente dell' Alighieri alle scienze sociali; ma tra l'empirismo del primo, e il razionalismo del secondo, egli si elevò ai più alti concetti della filosofia del diritto, ed apprezzò con savio temperamento e con squisita sagacità ciò ch'esige dalla ragione la struttura organica de' corpi politici, e la pericolosa indole delle passioni nemiche dell'ordine che la scompigliano. Il suo libro può dirsi il primo, nel quale le scienze sociali abbiano posto in alleanza tra loro i bisogni della speculazione e quelli dell' esperienza; della qual verità nelle prime linee del libro dell' Alighieri le tracce manifeste s'incontrano; avvertendo egli, esservi nello scibile umano cognizioni, le quali, vere di loro natura, possono bensì dall'ingegno degli uomini specu- ! larsi, ma non costruirsi; ed altre esservene, le quali, di lor natura essenzialmente pratiche, possono sperimentalmente formarsi; tra le quali co

DANTE.

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Tanto omai note sono le gare, le quali sventuratamente in que' secoli fervevano fra il sacerdozio e l'impero, che nissuno farà per certo le maraviglie, vedendo come Dante consacri tutto il terzo libro di questa operetta a provare, che l'autorità dell'impero non può da quella del sacerdozio aver la sua origine. Ma come questa quistione, alla quale oggi non v' ha più chi pensi, potrebbe per altro lato trarre alcuno in inganno (e già vel trasse di fatto), presentando a prima vista il sospetto, che Dante limiti la potestà del sommo pontefice alla spirituale soltanto, nè conceda che questi possa ad un tempo essere e sacerdote e sovrano, così io credo opportuno il dire intorno a ciò due parole.

Dico adunque, che nel libro di Dante non è espressione, ia quale chiarifichi quel sospetto e l'avveri: che per l'opposito vi se ne rinvengono alcune, le quali alla contraria sentenza porgono tutto l'appoggio. La tesi del ghibellino scrittore intorno questo subietto si è, che la Chiesa non ha virtù di dare autorità all' imperatore romano: se l'avesse, l'avrebbe s da Dio, da sè, o da altro imperatore, o dal consentimento di tutti gli uomini, od almeno della maggior parte (lib. III, § 13). Ma non l'ha da nessuno di essi, e tanto meno da altro imperatore; perciocchè questi, chiunque si fosse, o Costantino, o Carlo Magno, od altri, non poteva trasferire nel pontefice, nè il pontefice poteva dall' imperatore ricevere, la giurisdizione imperiale, perocchè questa non si può scindere, nè permutare, nè dissipare (lib. III, § 10 e segg.) Dopo di che soggiunge: Nientedimeno poteva l'imperatore,

gnizioni egli colloca la relativa alle materie politiche; col che avverte il lettore, aver egli nella sua opera inteso di costruire una politica teoria....

» Lo scopo filosofico del lavoro si manifesta dal suo principio. Lo scrit tore riconosce la necessità, che un secolo accolga le cognizioni di quelli che lo precederono, e ne aumenti la massa ad utilità de' secoli che ver. anno chiama parasiti coloro, i quali si empiono della dottrina del tempo passato senza farla fruttare a vantaggio delle cose pubbliche del tempo oro. Il Machiavelli e il Montesquieu non potevano avere una professione di fede filosofica più ampia e più alta di questa dell' Alighieri. Egli cerca un principio: lo ravvisa in un fine, dalla natura del quale deduce quella de' mezzi necessarii per giungervi. Questo fine è la civiltà, verso la quale la natura umana ha una irresistibil tendenza. Ma questa tendenza ha biso gno di direzione; e poichè la civiltà non è nè può essere d'una parte degli uomini, ma dev'esser di tutti, l' Alighieri a quest' astrazione della civiltà ne aggiunge una nuova e più grande, quella della umanità, per la quale, e non per tale o tal altra frazione di uomini, intende di scrivere. >> (CARMIGNANI, Dissertazione sulla Monarchia di Dante, nell'edizione Ter Livorno, 1844.)

יך

in aiuto della Chiesa, il patrimonio e le altre cose deputare, stando sempre fermo il superiore dominio, l'unità del quale non soffre divisione. E poteva il vicario di Dio ricevere, non come possessore, ma come dispensatore de' frutti a' poveri di Cristo, la qual cosa sappiamo essere stata dagli Apostoli fatta. Quello dunque che l'imperatore non poteva trasferir nel pontefice era l'autorità imperiale, non il patrimonio e le altre cose, le quali poteva benissimo deputare a modo di feudo libero, rimanendo soltanto nell'impero l'alto dominio. Dunque ciò che la Chiesa avesse ricevuto dalla liberalità degl' imperatori, lo avrebbe tenuto di diritto.

Ma le donazioni degl' imperatori non si rimanevano per Dante allo stato d'ipotesi : elle erano un fatto; e già nella Commedia (Inf. canto XIX, v. 115 e segg.) aveva esclamato: Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre Non la tua conversion, ma quella dote Che da te prese il primo ricco patre.

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E qui (lib. III, § 12), dopo aver mostrato, come l'impero esisteva, e in tutta la sua forza si stava, innanzi che la Chiesa di Cristo si fosse; donde appalesavasi l'assurdo degli ecclesiastici, perchè, vere essendo le loro pretese, l'effetto avrebbe preceduto alla causa, con queste parole prosegue: Se Costantino non avesse avuto autorità, quelle cose dell' imperio che deputò alla Chiesa in patrocinio di essa, non avrebbe potuto di ragion deputare; e così la Chiesa ingiustamente userebbe quel dono.... Ma il dire che la Chiesa così usi male il patrimonio a sè deputato, è molto inconveniente. Adunque è falso quello di che questo conseguita.

Le riportate espressioni del ghibellino scrittore dicono pertanto chiaramente, la Chiesa tenersi di diritto tutto quanto le fu dagl' imperatori donato: onde resta affatto escluso il sospetto, che l'argomento del libro poteva a prima vista indurre in alcuno. Non intendeva adunque l' Alighieri che nel pontefice non potessero unirsi la spirituale e la secolare potestà per modo che egli si fosse di diritto sovrano ne'proprii Stati, ma sibbene escludeva l'autorità universale sopra gli Stati altrui. Egli teneva, secondo l'opinione vera e cattolica, e secondo il detto di San Paolo omnis potestas a Deo venit, che ogni principe temporale abbia, in quanto all'esser di principe, una potestà immediata da Dio, non mediata per il pontefice. Anzi, mentre Dante conchiude la combattuta tesi, protesta, che questa quistione non si deve così strettamente intendere, che l'imperatore romano non sia al pontefice in alcuna cosa soggetto, conciossiachè questa mortale felicità alla felicità immortale sia ordinata. Cesare adunque (egli

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