ELEGIA (1817) Dove son? dove fui? che m'addolora? Ahimè ch'io la rividi, e che giammai Non avrò pace al mondo insin ch'io mora. Che vidi, o Ciel, che vidi, e che bramai! Perchè vacillo? e che spavento è questo? Io non so quel ch'io fo, nè quel ch'oprai. Fugge la luce, e'l suolo ch'i' calpesto Ondeggia e balza, in guisa tal ch'io spero Ch'egli sia sogno e ch'i' non sia ben desto. Ahimè ch'io veglio, e quel che sento è il vero; Vero è ch'anzi morrò ch'al guardo mio Sorga sereno un dì su l'emispero. Meglio era ch'i' morissi avanti ch'io Rivedessi colei che in cor m'ha posto Di morire un asprissimo desio: Ch'allor le membra in pace avrei composto: Or fia con pianto il fin de la mia vita, Or con affanno al mio passar m'accosto. O Cielo, o Cielo, io ti domando aita. Che far debb'io? conforto altro non vedo Al mio dolor, che l'ultima partita. Ahi ahi, chi l'avria detto: appena il credo: Quanto sperar, quanto gioir mi leva Già t'ebbi in seno; ed in error m'ha tratto La rimembranza: indarno oggi mi pento, E meco indarno e teco, Amor, combatto. Ma lieve a comportar quello ch'io sento Fòra, sol ch'anco un poco io di quel volto Dissetar mi potessi a mio talento. Ora il più rivederla oggi m'è tolto, Intanto io grido, e qui vagando intorno, O care nubi, o cielo, o terra, o piante, Or prorompi, o procella, or fate prova Di sommergermi, o nembi, insino à tanto Che 'l Sole ad altre terre il dì rinnova. S'apre il ciel, cade il soffio, in ogni canto Posan l'erbe e le frondi, e m'abbarbaglia Le luci il crudo Sol pregne di pianto. Io veggio ben ch'a quel che mi travaglia Nessuno ha cura; io veggio che negletto, Ignoto, il mio dolor mi fiede e taglia. Segui, m'ardi, mi strazia, a tuo diletto Spegnimi, o Ciel; se già non prima il core Di propria mano io sterpomi dal petto. O donna, e tu mi lasci; e questo amore Deh giammai questa cruda e questa insana Intanto io per te piango, o donna mia, E piangerò quando lucente e rosso Apparrà l'oriente e quando bruno, Fin che il peso carnal non avrò scosso. Ne tu saprai ch'io piango, e che digiuno De la tua vista, io mi disfaccio: e morto, Da te non avrò mai pianto nessuno, Così vivo e morrò senza conforto. SONETTI IN PERSONA DI SER PECORA FIORENTINO BECCAIO (1817) Questi Sonetti, composti a somiglianza dei Mattaccini del Caro, furono fatti in occasione che uno scrittorello, morto or son pochi anni, pubblicò in Roma una sua diceria; nella quale rispondendo ad alcune censure sopra un suo libro divul gate in un Giornale, usava parole indegnę contro due nobilissimi letterati italiani che ancora vivono. Come nei Mattaccini del Caro sotto l'allegoria del gufo e del castello di vetro dinotasi il Castelvetro, parimente in questi Sonetti disegnasi il detto scrittorello sotto l'allegoria del manzo. Il nome del beccaio è tolto dalla Cro nica di Dino Compagni, la quale fa menzione di un beccaio fiorentino di qua tempi, detto per soprannome il Pecora. SONETTO I. Il manzo a dimenarsi si sollazza, E s'oggi non gli schiaccia |