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Il Giordani notò con istupore che i primi scritti del Leopardi erano macchiati di pece francese. Egli stesso scriveva allo Stella il 6 dicembre 1816:

«...Le quali (mie traduzioni) a dirle schiettamente il mio vero e immutabile parere, che non nascondo a veruno, eccetto quella del primo canto dell'Odissea sono tutte cattive e pessime: e intendo parlare anco dei due discorsi preliminari, che in fatto di lingua sono esecrabili. >>

Nè come il Vannetti dal bastardume passò all'affettazione; sibbene dall'uso della lingua corrente e dei libri che più avea a mano corse a quel dire schietto e sano e insieme squisito, eleggendo, come si disse del Petrarca, la parte immarcescibile della lingua, tantochè egli vivrà quanto lei.

Fu mirabile nel vero, così la precocità dell'ingegno del Leopardi come la rapidità con cui ascese l'erta infocata della gloria del bello scrivere. - Dai primi versi, specialmente da quelli della versione del secondo dell'Eneide al canto della Ginestra, quale progresso! Forse non minore scatto che dalla primiera religiosità alla finale disperazione. Il Leopardi dettava inni alle vecchie e sparite deità e meditava inni ai nuovi signori del cielo. Potrebbe credersi che gli uni e gli altri fossero esercitazioni poetiche se così nella conclusione del Saggio sugli Errori popolari degli antichi, come nel seguente progetto d'inni cristiani non si sentisse l'accento del fedele, del credente.

Come che sia gl'Innajuoli, secondo li chiamava l'Emiliani Giudici, non seppero la fortuna che era loro sfuggita di avere un tal compagno al lor canto fermo. Ecco lo schema d'inni cristiani dato dal Sainte-Beuve:

<< Per l'inno al Redentore. Tu sapevi già tutto ab eterno; ma permetti all'imaginazione umana che noi ti consideriamo, come più intimo testimonio delle nostre miserie. Tu hai provata questa vita nostra, tu ne hai assaporato il nulla, tu hai sentito il dolore e l'infelicità dell'esser nostro, ecc. Pietà di tanti affanni, pietà di questa povera creatura tua, pietà dell'uomo infelicissimo, di quello che hai redento, pietà del gener tuo, poichè hai voluto aver comune la stirpe con noi; esser uomo ancor tu... » (e dopo alcuni altri schemi d'inni agli apostoli, ai solitarj, dice il Sainte-Beuve, torna al primo con tenerezza). « Per l'inno

al Creatore e al Redentore : Ora vo da speme a speme tu giorno errando e mi scordo di te benchè sempre deluso, e Tempo verrà ch'io, non restandomi altra luce di speran: altro stato a cui ricorrere, porrò tutta la mia speran nella morte, allora ricorrerò a te, ecc. Abbi allora mis ricordia, ecc. » E finisce, continua il Sainte-Beuve, alcune linee con lo schema d'un inno a Maria.

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Se viveva, dice il Gioberti, si sarebbero ravvivate in 1 le primitive faville di religione e di fede. Egli ebbe tu tavia la religione della patria, la fede nell'arte, il culto c bene; illustrò di nuova gloria la poesia e l'Italia. Parreb che tanti meriti fossero più che bastanti a salute.

EUGENIO CAMERINI.

DEDICATORIA

DELLE DUE PRIME CANZONI

ALL'ITALIA E SUL MONUMENTO DI DANTE

SCRITTA NEL 1818.

AL CHIARISSIMO SIG. CAV. VINCENZO MONTI

GIACOMO LEOPARDI.

Quando mi risolsi di pubblicare queste Canzoni, come zon mi sarei lasciato condurre da nessuna cosa del mondo ɩ intitolarle a verun potente, così mi parve dolce e beato I consacrarle a voi, signor cavaliere. Stante che oggidì chiunque deplora o esorta la patria nostra, non può are che non si ricordi con infinita consolazione di voi che insieme con quegli altri pochissimi, i quali tacendo zon vengo a dinotare niente meno di quello che farei noninando, sostenete l'ultima gloria nostra, io dico quella the deriva dagli studi, e singolarmente dalle lettere e arti belle, tanto che per anche non si può dire che l'Italia sia morta. Di queste Canzoni, se uguaglino il soggetto, che quando lo uguagliassero non mancherebbe loro e grandiosità nè veemenza, sarà giudizio non tanto dell'universale quanto vostro; giacchè da quando veniste in quella fama che dovevate, si può dire che nessuno scritore italiano, se non altro, di quanti non ebbero la vista mpedita nè da scarsezza d'intelletto, nè da presunzione e amore di sè medesimi, stimò che valessero punto a riFarlo delle riprensioni vostre le lodi dell'altra gente, 0 odato da voi riputò mal pagate le sue fatiche, o si curò le' biasimi o dello spregio del popolo. Basterà che intorno il canto di Simonide che sta nella prima Canzone io si

gnifichi non per voi, ma per li più de' lettori, e doma dandovi perdono di questo, ch'io mi fo coraggio e n mi vergogno di scriverlo a voi, che quel gran fatto de Termopili fu celebrato realmente da un poeta greco molta fama, e quel ch'è più, vissuto in quei medesimi tem cioè Simonide, come si vede appresso Diodoro nell'uni cimo libro, dove recita anche certe parole di esso poet lasciando l'epitaffio riportato da Cicerone e da altri. D o tre delle quali parole recate da Diodoro sono espre nel quinto verso dell'ultima strofe. Ora io giudicava c nessun altro poeta lirico nè prima nè dopo toccasse n verun soggetto così grande nè conveniente. Imperocc quello che raccontato o letto dopo ventitrè secoli, tuti via spreme da occhi stranieri le lagrime a viva forz pare che quasi veduto, e certamente udito a magnifica da chicchessia nello stesso fervore della Grecia vincitri di un'armata quale non si vide in Europa se non allor fra le maraviglie, i tripudi, gli applausi, le lagrime tutta un'eccellentissima nazione sublimata oltre a quar si può dire o pensare dalla coscienza della gloria acq stata, e da quell'amore incredibile della patria ch'è p sato in compagnia de' secoli antichi, dovesse ispirare qualsivoglia Greco, massimamente poeta, affetto e furo onninamente indicibile e sovrumano. Per la qual cosa d lendomi assai che il sovradetto componimento fosse perdui alla fine presi cuore di mettermi, come si dice, nei par di Simonide, e così, quanto portava la mediocrità mi rifare il suo canto, del quale non dubito affermare, c se non fu meraviglioso, allora e la fama di Simonide vano rumore, e gli scritti consumati degnamente dal temp Di questo mio fatto, se sia stato coraggio o temerità, se tenziate voi, signor cavaliere; e altresì, quando vi paia. tanto, giudicherete della seconda Canzone, la quale v'offro umilmente e semplicemente insieme coll'altra, a ceso d'amore verso la povera Italia, e quindi animato vivissimo affetto e gratitudine e riverenza verso cotes numero presso che impercettibile d'Italiani che sopravviv Nè temo se non ch'altri mi vituperi e schernisca della i degnità e miseria del donativo; che quanto a voi n. ignoro che siccome l'eccellenza del vostro ingegno vi a mostrerà necessariamente a prima vista la qualità dell'o ferta, così la dolcezza del cuor vostro vi sforzerà d'a cettarla, per molto ch'ella sia povera e vile, e conoscen. la vanità del dono, a ogni modo procurerete di scusa

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la confidenza del donatore; forse anche vi sarà grato quello che, non ostante la benignità vostra, vi converrà tenere per dispregevole.

(La stessa Dedicatoria rifatta nel 1824.)

Consacro a voi, signor cavaliere, queste Canzoni, perchè quelli che oggi compiangono o esortano la patria nostra, non possono fare di non consolarsi pensando che voi con quegli altri pochissimi (i nomi dei quali si dichiarano ver sè medesimi quando anche si tacciano) sostenete l'ulima gloria degl'Italiani; dico quella che deriva loro dagli studi e singolarmente dalle lettere e dalle arti belle; tanto che per anche non si potrà dire che l'Italia sia morta. Se queste Canzoni uguagliassero il soggetto, so bene che non mancherebbe loro nè grandiosità nè veemenza: ma non dubitando che non cedano alla materia, mi rimetto del quanto e del come al giudizio vostro, non altrimenti ch'io faccia a quello dell'universale: conformandomi in questa parte a molti valorosi ingegni italiani che per l'ordinario non si contentano se le opere loro sono approvate per buone dalla moltitudine, quando a voi non soddisfacciano; o lodate che sieno da voi, non si curano che il più dell'altra gente le biasimi o le disprezzi. Una cosa nei particolare della prima Canzone m'occorre di significare alla più parte degli altri che leggeranno; ed è che il successo delle Termopile fu celebrato veramente da quello che in essa Canzone s'introduce a poetare, cioè da Simomide; tenuto dall'antichità fra gli ottimi poeti lirici; vissuto, che più rileva, ai medesimi tempi della scesa di Serse, e Greco di patria. Questo suo fatto, lasciando l'epitaffio riportato da Cicerone e da altri, si dimostra da quello che scrive Diodoro nell'undecimo libro; dove recita anche certe parole d'esso poeta in questo proposito; due o tre delle quali sono espresse nel quinto verso delTultima strofe. Rispetto dunque alle predette circostanze del tempo e della persona, e d'altra parte riguardando alle qualità della materia per se medesima, io non credo che mai si trovasse argomento più degno di роета e più fortunato di questo, che fu scelto o più veramente Sortito da Simonide. Perocchè se l'impresa delle Termopile fa tanta forza a noi che siamo stranieri verso quelli che

lirico

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