Su, scaviglia la corda. Oh ve, gavazza E tripudia e ballonzola e saltella:
Non de' saper che'l bue qui si macella: Via, per saggio, lo tanfana e lo spazza; Via, gli fruga la schiena e gli spelazza: E' dà nel foco giù da la padella. Le corna gli 'mpastoia e gli 'ncappella; Ammanna la ferriera, e to'la mazza.
Su, Cionno, ravviluppati 'l grembiale, Gli avvalla il capo, cansa la cozzata, E giuca de la vita e de le braccia.
Ve', s'arresta e s'accoscia: orsù, non vale: Gli appicca, Meo, sul collo una bacchiata, Fa che risalti in piede, e gli t'abbraccia; E'l tira, e gli ricaccia
Le corna abbasso, e senza discrezione Gli accomanda la testa a l'anellone.
Ve' che 'l tira, e s'indraca e schizza e 'mpazza: Dagli'n sul capo via, che non lo svella; Su, gli acciacca la nuca e la sfracella. Ma ve' che'l maglio casca e non l'ammazza. Oh che testa durissima, o che razza Di bestia! i' vo' morir s'ha le cervella. Ma gli trarrò le corna e le budella S'avesse la barbuta e la corazza.
Leva'l maglio, Citrullo, un'altra fiata, E glien'assesta un'altra badiale, E l'anima gli sbarbica e gli slaccia.
Fagli de la cucuzza una schiacciata: Ve' che basisce, e dice al mondo, vale; Suso un'altra, e 'l sollecita e lo spaccia.
In grazia, Manzo, avaccia: A ogni mo' ti bisogna ire al cassone, Passando per li denti a le persone.
E' fa gheppio. Su l'anca or lo stramazza, L'arrovescia; e lo sgozza e l'accoltella. Ve' ch'ancor trema e palpita e balzella, Guata, che le zampacce in aria sguazza. Qua, che già 'l sangue spiccia e sgorga e sprazza Qua presto la barletta o la scodella; Reca qualcosa, o secchia o catinella O'l bugliolo o la pentola o la cazza: Corri pel calderotto o la stagnata, Då di piglio a la tegghia o a l'orinale; Presto, dico, il malan che ti disfaccia. Di molto sangue avea quest'animale: Mo' fagli fare un'altra scorpacciata, E di vento l'impregna e l'abborraccia. Istrigati e ti sbraccia: Mano speditamente a lo schidone; Busagli'l ventre, e'nzeppavi'l soffione.
Senti ch'e' fischia e cigola e strombazza: Gli è satollo di vento: or lo martella, E'l dabbudà su l'epa gli strimpella E ne rintrona il vicolo e la piazza.
Ve' la pelle, al bussar, mareggia e guazza: Lo spenzola pel rampo a la girella: Lo sbuccia tutto quanto e lo dipella; E'l disangua, lo sbatti e lo strapazza. Sbarralo, e tra' budella e tra' corata, Tra' milza, che per fiel più non ammale, E l'entragno gli sbratta e gli dispaccia.
D'uno or vo' ch'e' riesca una brigata: Gli affetta l'anca e'l ventre e lo schienale, E lo smembra, lo smozzica, lo straccia. Togliete oh chi s'affaccia: Ecco carni strafresche, ecco l'argnone: Vo' mi diciate poi se saran buone.
Γεράων δὲ θεοῖς κάλλιστον ἀοιδή TEOCR., Idill. 22, vers. ult.
Lui che la terra scuote, azzurro il crine, A cantare incomincio. Alati preghi A te, Nettuno re, forza è che indrizzi Il nocchier fatichevole che corre Su veloce naviglio il vasto mare, Se campar brama dai sonanti flutti E la morte schivar: che a te l'impero Del pelago toccò, da che nascesti Figlio a Saturno, e al fulminante Giove Fratello e al nero Pluto. E Rea la Diva Dal vago crin ti partorì, ma in Cielo Non già: chè di Saturno astuto Nume Gli sguardi paventava. Ella discese A la selvosa terra, il petto carca D'acerba doglia, e scolorite avea Le rosee guance. Mentre il Sole eccelso Ardea su le montagne i verdi boschi, E sul caldo terren s'abbandonava L'agricoltor cui spossatezza invaso Avea le membra (poi che di Semèle Dal sen ricolmo nato ancor non era Il figlio alti-sonante, ed a gl'industri Mortali sconosciuto era per anche Il vin giocondo che vigore apporta), Ella s'assise all'ombra, e come uscito Fosti del suo grand'alvo, ti ripose Su le ginocchia assai piangendo, e preghi Porse a la Terra e a lo stellato Cielo:
O Terra veneranda, o Cielo padre, Deh riguardate a me, se pure è vero Che di voi nacqui, e questo figlio mio Da l'ira di Saturno astuto Nume Or mi salvate, sì ch'egli nol veda, E questi ben rincresca e venga adulto. Così pregava Rea di belle chiome, Poi che per te, di fresco nato, in core Sentia gran tema: e per gli eccelsi monti Ed il profondo mare errando giva L'eco romoreggiante. Udilla il Cielo E la feconda Terra, e nera Notte Venne sul bosco, e si sedè sul monte. Ammutarono a un tratto e sbigottiro I volatori de la selva, e intorno Con l'ali stese s'aggirar vicino
Al basso suol. Ma t'accogliea ben tosto La Diva Terra fra sue grandi braccia; Nè Saturnò il sapea, che nera Notte Era su la montagna. E tu crescevi, Re dal tridente d'oro, ed in robusta Giovinezza venivi. Allor che voi Di Rea leggiadra figli e di Saturno, Tutto fra voi partiste, ebbesi Giove, Che i nembi aduna, lo stellato Cielo; Il mar ceruleo tu; s'ebbe Plutone De l'Averno le tenebre. Ma tutti Tu de la Terra scotitor vincevi, Salvo Giove e Minerva. E chi potrebbe Con l'Olimpio cozzare impunemente? Il Cielo tu lasciasti, e teco il figlio De la bianca Latona in terra scese: Ed al superbo Laomedonte alzavi Tu dell'ampio Ilion le sacre mura; Mentre ne' boschi opachi e ne le valli De l'Ida nuvolosa i neri armenti Febo Apollo pascea: ma Laomedonte, Compita l'opra tua, la pattuita Mercede ti negò: stolto, che l'onde Biancheggianti del pelago spingesti Contr'Ilio tu, che sormontar le mura Con gran frastuono mormorando, e tutta Empiero la città di sabbia e limo Co prati e le campagne. E tal prendesti Del fier Laomedonte aspra vendetta.
Ma qual cagione a tenzonar ti mosse Con Palla Diva occhi-cilestra? Atene, La Cecropia città, poi ch'appellata Tu la volevi dal tuo nome, e Palla Il suo darle voleva. Ella ti vinse : Che con la lancia poderosa il suolo Percosse, e uscir ne fe virente ulivo Di rami sparsi. Ma tu pur fiedesti La diva terra col tridente d'oro, E tosto fuor n'uscì destrier ch'avea Florido il crine: onde a te diero i fati I cavalli domar veloci al corso.
I pastori ama Pan, gli arcieri Febo, Cari a Vulcano sono i fabbri, a Marte Gli eroi gagliardi in guerra, i cacciatori A la vergine Cinzia. A te son grati I domatori de' cavalli; e primo Tu de la terra scotitor possente A' chiomati destrieri il fren ponesti. Salve, equestre Nettuno. I tuoi cavalli Van pasturando ne gli Argivi prati Che à te sacri pur sono; e con la zappa Il faticoso agricoltor non fende Quel terreno giammai, nè con l'aratro. Ma presti son come gli alati augelli I tuoi destrieri, ed erta han la cervice; Nè ci ha mortal che trarli possa innanzi Al cocchio sotto il giogo, e con le briglie Reggerli e col flagello e con la voce.
Qual però de le ninfe a te dilette, Signor del mare, io canterò? la figlia Di Nereo forse e Doride, Anfitrite? O Libia chiomi-bella, o Menalippe Alto-succinta, o Alòpe, o Calliròe Di rosee guance, e la leggiadra Alcione, O Ippotoe, o Mecionìce, o di Pitteo
La figlia, Etra occhi-nera, o Chione od Olbia, O l'Eolide Canace, o Toosa
Dal vago piede, o la Telchine Alìa, Od Amimone candida, o la figlia D'Epidanno, Melissa? E chi potrebbe Tutte nomarle? e a noverar chi basta I figli tuoi? Cercion feroce, Eufemo, Il Tessalo Triòpe, Astaco e Rodo,
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