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SONETTO II.

Su, scaviglia la corda. Oh ve, gavazza
E tripudia e ballonzola e saltella:

Non de' saper che'l bue qui si macella:
Via, per saggio, lo tanfana e lo spazza;
Via, gli fruga la schiena e gli spelazza:
E' dà nel foco giù da la padella.
Le corna gli 'mpastoia e gli 'ncappella;
Ammanna la ferriera, e to'la mazza.

Su, Cionno, ravviluppati 'l grembiale,
Gli avvalla il capo, cansa la cozzata,
E giuca de la vita e de le braccia.

Ve', s'arresta e s'accoscia: orsù, non vale:
Gli appicca, Meo, sul collo una bacchiata,
Fa che risalti in piede, e gli t'abbraccia;
E'l tira, e gli ricaccia

Le corna abbasso, e senza discrezione
Gli accomanda la testa a l'anellone.

SONETTO III.

Ve' che 'l tira, e s'indraca e schizza e 'mpazza:
Dagli'n sul capo via, che non lo svella;
Su, gli acciacca la nuca e la sfracella.
Ma ve' che'l maglio casca e non l'ammazza.
Oh che testa durissima, o che razza
Di bestia! i' vo' morir s'ha le cervella.
Ma gli trarrò le corna e le budella
S'avesse la barbuta e la corazza.

Leva'l maglio, Citrullo, un'altra fiata,
E glien'assesta un'altra badiale,
E l'anima gli sbarbica e gli slaccia.

Fagli de la cucuzza una schiacciata:
Ve' che basisce, e dice al mondo, vale;
Suso un'altra, e 'l sollecita e lo spaccia.

In grazia, Manzo, avaccia:
A ogni mo' ti bisogna ire al cassone,
Passando per li denti a le persone.

LEOPARDI.

Poesie.

14

SONETTO IV.

E' fa gheppio. Su l'anca or lo stramazza, L'arrovescia; e lo sgozza e l'accoltella. Ve' ch'ancor trema e palpita e balzella, Guata, che le zampacce in aria sguazza. Qua, che già 'l sangue spiccia e sgorga e sprazza Qua presto la barletta o la scodella; Reca qualcosa, o secchia o catinella O'l bugliolo o la pentola o la cazza: Corri pel calderotto o la stagnata, Då di piglio a la tegghia o a l'orinale; Presto, dico, il malan che ti disfaccia. Di molto sangue avea quest'animale: Mo' fagli fare un'altra scorpacciata, E di vento l'impregna e l'abborraccia. Istrigati e ti sbraccia: Mano speditamente a lo schidone; Busagli'l ventre, e'nzeppavi'l soffione.

SONETTO V.

Senti ch'e' fischia e cigola e strombazza:
Gli è satollo di vento: or lo martella,
E'l dabbudà su l'epa gli strimpella
E ne rintrona il vicolo e la piazza.

Ve' la pelle, al bussar, mareggia e guazza:
Lo spenzola pel rampo a la girella:
Lo sbuccia tutto quanto e lo dipella;
E'l disangua, lo sbatti e lo strapazza.
Sbarralo, e tra' budella e tra' corata,
Tra' milza, che per fiel più non ammale,
E l'entragno gli sbratta e gli dispaccia.

D'uno or vo' ch'e' riesca una brigata:
Gli affetta l'anca e'l ventre e lo schienale,
E lo smembra, lo smozzica, lo straccia.
Togliete oh chi s'affaccia:
Ecco carni strafresche, ecco l'argnone:
Vo' mi diciate poi se saran buone.

INNO A NETTUNO,

D'INCERTO AUTORE

TRADUZIONE DAL GRECO

(1817)

Γεράων δὲ θεοῖς κάλλιστον ἀοιδή
TEOCR., Idill. 22, vers. ult.

Lui che la terra scuote, azzurro il crine,
A cantare incomincio. Alati preghi
A te, Nettuno re, forza è che indrizzi
Il nocchier fatichevole che corre
Su veloce naviglio il vasto mare,
Se campar brama dai sonanti flutti
E la morte schivar: che a te l'impero
Del pelago toccò, da che nascesti
Figlio a Saturno, e al fulminante Giove
Fratello e al nero Pluto. E Rea la Diva
Dal vago crin ti partorì, ma in Cielo
Non già: chè di Saturno astuto Nume
Gli sguardi paventava. Ella discese
A la selvosa terra, il petto carca
D'acerba doglia, e scolorite avea
Le rosee guance. Mentre il Sole eccelso
Ardea su le montagne i verdi boschi,
E sul caldo terren s'abbandonava
L'agricoltor cui spossatezza invaso
Avea le membra (poi che di Semèle
Dal sen ricolmo nato ancor non era
Il figlio alti-sonante, ed a gl'industri
Mortali sconosciuto era per anche
Il vin giocondo che vigore apporta),
Ella s'assise all'ombra, e come uscito
Fosti del suo grand'alvo, ti ripose
Su le ginocchia assai piangendo, e preghi
Porse a la Terra e a lo stellato Cielo:

O Terra veneranda, o Cielo padre,
Deh riguardate a me, se pure è vero
Che di voi nacqui, e questo figlio mio
Da l'ira di Saturno astuto Nume
Or mi salvate, sì ch'egli nol veda,
E questi ben rincresca e venga adulto.
Così pregava Rea di belle chiome,
Poi che per te, di fresco nato, in core
Sentia gran tema: e per gli eccelsi monti
Ed il profondo mare errando giva
L'eco romoreggiante. Udilla il Cielo
E la feconda Terra, e nera Notte
Venne sul bosco, e si sedè sul monte.
Ammutarono a un tratto e sbigottiro
I volatori de la selva, e intorno
Con l'ali stese s'aggirar vicino

Al basso suol. Ma t'accogliea ben tosto
La Diva Terra fra sue grandi braccia;
Nè Saturnò il sapea, che nera Notte
Era su la montagna. E tu crescevi,
Re dal tridente d'oro, ed in robusta
Giovinezza venivi. Allor che voi
Di Rea leggiadra figli e di Saturno,
Tutto fra voi partiste, ebbesi Giove,
Che i nembi aduna, lo stellato Cielo;
Il mar ceruleo tu; s'ebbe Plutone
De l'Averno le tenebre. Ma tutti
Tu de la Terra scotitor vincevi,
Salvo Giove e Minerva. E chi potrebbe
Con l'Olimpio cozzare impunemente?
Il Cielo tu lasciasti, e teco il figlio
De la bianca Latona in terra scese:
Ed al superbo Laomedonte alzavi
Tu dell'ampio Ilion le sacre mura;
Mentre ne' boschi opachi e ne le valli
De l'Ida nuvolosa i neri armenti
Febo Apollo pascea: ma Laomedonte,
Compita l'opra tua, la pattuita
Mercede ti negò: stolto, che l'onde
Biancheggianti del pelago spingesti
Contr'Ilio tu, che sormontar le mura
Con gran frastuono mormorando, e tutta
Empiero la città di sabbia e limo
Co prati e le campagne. E tal prendesti
Del fier Laomedonte aspra vendetta.

Ma qual cagione a tenzonar ti mosse
Con Palla Diva occhi-cilestra? Atene,
La Cecropia città, poi ch'appellata
Tu la volevi dal tuo nome, e Palla
Il suo darle voleva. Ella ti vinse :
Che con la lancia poderosa il suolo
Percosse, e uscir ne fe virente ulivo
Di rami sparsi. Ma tu pur fiedesti
La diva terra col tridente d'oro,
E tosto fuor n'uscì destrier ch'avea
Florido il crine: onde a te diero i fati
I cavalli domar veloci al corso.

I pastori ama Pan, gli arcieri Febo,
Cari a Vulcano sono i fabbri, a Marte
Gli eroi gagliardi in guerra, i cacciatori
A la vergine Cinzia. A te son grati
I domatori de' cavalli; e primo
Tu de la terra scotitor possente
A' chiomati destrieri il fren ponesti.
Salve, equestre Nettuno. I tuoi cavalli
Van pasturando ne gli Argivi prati
Che à te sacri pur sono; e con la zappa
Il faticoso agricoltor non fende
Quel terreno giammai, nè con l'aratro.
Ma presti son come gli alati augelli
I tuoi destrieri, ed erta han la cervice;
Nè ci ha mortal che trarli possa innanzi
Al cocchio sotto il giogo, e con le briglie
Reggerli e col flagello e con la voce.

Qual però de le ninfe a te dilette,
Signor del mare, io canterò? la figlia
Di Nereo forse e Doride, Anfitrite?
O Libia chiomi-bella, o Menalippe
Alto-succinta, o Alòpe, o Calliròe
Di rosee guance, e la leggiadra Alcione,
O Ippotoe, o Mecionìce, o di Pitteo

La figlia, Etra occhi-nera, o Chione od Olbia,
O l'Eolide Canace, o Toosa

Dal vago piede, o la Telchine Alìa,
Od Amimone candida, o la figlia
D'Epidanno, Melissa? E chi potrebbe
Tutte nomarle? e a noverar chi basta
I figli tuoi? Cercion feroce, Eufemo,
Il Tessalo Triòpe, Astaco e Rodo,

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