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Onde nome ha del Sol l'Isola sacra,
E Teseo ed Alirrozio ed il possente
Triton, Dirrachio e il battaglioso Eumolpo
E Polifemo a Nume ugual. Ma questo
Canto è meglio lasciar, che spesso i figli
Cagion furono a te d'acerbo lutto.
Polifemo de l'occhio il saggio Ulisse
n Trinacria fe cieco: Eumolpo spense
In Attica Eretteo: ma ben vendetta
Tu ne prendesti, o Scoti-terra, e morto
Lui con un colpo del tridente, al suolo
La casa ne gettasti. E Marte istesso
Impunemente non t'uccise il figlio
Alirrozio leggiadro: i Numi tutti
Lui concordi dannàr. Salve, o Nettuno
Ampio-possente: a te gl'Istmici ludi
E le corse de' cocchi e de gli atleti
Son sacre, e l'aspre lotte: e neri tori
In Trezene, in Geresto, e in cento grandi
Città di Grecia ogni anno a l'are tue
Cadono innanzi; e ne la Doric'Istmo
Vittime in folla traggono al tuo tempio
Le allegre turbe. Oh salve, azzurro Dio
Che la terra circondi, alti-sonante,
Gravi-fremente. I boschi su le cime
De le montagne crollansi, e le mura
De le cittadi popolose, e i templi
Ondeggiano perfino, allor che scuoti
Tu col tridente flebile la terra,
E gran fracasso s'ode e molto pianto
Per ogni strada. Nè mortale ardisce
Immoto starsi; ma per tema a tutti
Si sciolgon le ginocchia, e a l'are tue
Corre ciascun, t'indrizza preghi, e molte
Allor s'offrono a te vittime grate.

Salve, o gran figlio di Saturno. Il tuo Lucente cocchio è in Ega, nel profondo Del romoroso pelago: Vulcano

Tel fabbricò: divina opra ammiranda.
Ha le ruote di bronzo, ed il timone
D'argento, e d'oro tutto è ricoperto
L'incorruttibil seggio. Allor che poni
Tu sotto il giogo i tuoi cavalli, e volano
Essi pel mare indomito, fendendo

I biancheggianti flutti, e sui lor colli
Disperge il vento gli aurei crini; intorno
A te che siedi e il gran tridente rechi
Ne le divine mani, uscite fuori
De le case d'argento a galla tutte
Le guanci-belle figlie di Nereo

Vengono tosto, e innanzi a te s'abbassa
L'onda t'apre la via; nè l'alza il vento:
Che tu del mar l'impero in sorte avesti.
Ma qual potrò chiamarti, o del tridente.
Agitatore? altri Eliconio, ed altri
T'appella Suniarato. A Sparta detto
Sei Natalizio, ed Ippodromio a Tebe,
In Atene Eretteo. Chiamanti Elate
Molti altri, e molti di Trezenio o d'Istmio
Ti danno il nome. I Tessali Petreo
Diconti, ed altri Onchestio, ed altri pure
Egeo ti noma e Cinade Fitalmio.
Io dirotti Asfaleo, poichè salute
Tu rechi a' naviganti. A te fa voti
Il nocchier quando s'alzano del mare
L'onde canute, e quando in nera notte
Percote i fianchi al ben composto legno
Il flutto alti-sonante, che s'incurva
Spumando, e stanno tempestose nubi
Su le cime degli alberi, e del vento
Mormora il bosco al soffio (orrore ingombra
Le menti de' mortali) e quando cade
Precipitando giù dal ciel gran nembo
Sopra l'immenso mare. O Dio possente,
Che Tenaro e la sacra Onchestia selva
E Micale e Trezene ed il pinoso
Istmo ed Ega e Geresto in guardia tieni,
Soccorri a' naviganti; e fra le rotte
Nubi fa che si veda il cielo azzurro
Ne la tempesta, e su la nave splenda
Del Sole o de la luna un qualche raggio
O de le stelle, ed il soffiar de' venti
Cessi; e tu l'onde romorose appiana,
Si che campın dal rischio i marinai.
O Nume, salve, e con benigna mente
Proteggi i vati che de gl'inni han cura.

IDILLI DI MOSCO.

(1815)

IDILLIO PRIMO

Amore fuggitivo.

Venere un dì cercando Amor perduto,
Alto gridar s'udia: per sorte alcuno
Veduto avrebbe Amor pei trivii errante?
Il fuggitivo è mio; chi me l'addita
Sicuro premio avrà, di Cipri un bacio.
Che se trovato alcun mel tragga innanzi,
Non un mio bacio sol, più speri ancora.
A molti segni il mio figliuol tra venti
Distinguer puoi: bianco non è, ma il fuoco
Somiglia nel color, furbe ed accese
Ha le pupille; è di maligna mente,
Dolce nel favellar; lingua bugiarda,
Mellita voce egli ha; ma se si adira
E di selvaggio cor: garzon fallace:
Nemico a verità, brutal ne' giuochi:
Crespe ha le chiome, e di tiranno il volto;
Brevi ha le mani, e pur da lungi scaglia
Fino a Stige lo stral, fino a Plutone.
Nudo è di corpo, ma di mente ascosa;
D'ali vestito, come augel saltella,

Or di quello, or di questa in cuor si asside
Picciolo ha l'arco, ma sull'arco il dardo;
Picciolo il dardo, ma che giunge al cielo.
Grave di acerbi strali al fianco appesa
Ha una faretra d'oro, e me pur anco
Spesso ferì con quelle frecce; in lui
Tutto tutto è crudel, ma più di tutto

Quella, che reca in man, piccola face,
Onde talor l'istesso Sole infiamma.

Or se per caso il prendi, avvinto il traggi;
Non averne pietà, se piagner mostra;
Guarda che non t'inganni, e stretto il reca :
Se ride ancor, se vuol baciarti, il. vieta;
Maligno è il bacio, e venenoso il labbro.
Che se pur dice: orsù, prendi, quest'armi
Tutte donar ti vo'; tu le ricusa;
Fallace è il dono, e fuoco son quell'armi.

IDILLIO SECONDO.

Europa.

Già Venere ad Europa, della notte Nella terza vigilia, allor che omai Era presso il mattino, un dolce sogno Mandò; quando il sopor sulle palpebre Più soave del mel siede, e le membra Lieve rilassa, ritenendo intanto In molle laccio avviluppati i lumi: Quando lo stuol dei veri sogni intorno Ai tetti errando va. Nelle sue stanze Vergine ancor dormia la bella Europa, Di Fenice la figlia. In sogno vide Per se far lite due regioni opposte. Ambe di donne avean l'aspetto; e l'una D'Asia parea, l'altra straniera: or quella Alto sclamar s'udiva, e la fanciulla Chieder con forti grida, e dir che madre Gli era e nutrice: l'altra colle braccia Europa a se traea robustamente, E gridava, già scritto esser nei fati Che la donzella a lei l'egioco Giove Recasse in don. Nè resisteva Europa, Ma palpitante il cor batteagli in seno. A un punto si destò, balzò dal letto, Che visto aver credeva, e non sognato. Sedeva taciturna, e benchè desta Ambe le donne ancor negli occhi avea. Alfin, poi che si scosse, e qual dei Numi, Disse, mi spedì mai questi fantasmi?

Quai sogni mi turbàr, mentre tranquilla
Sul mio letto dormia sì dolcemente
Nelle mie quiete stanze? E quella donna
Che straniera parea, che rimirommi
Come sua figlia, e con sì dolce volto
M'accolse, m'abbracciò, seco mi trasse,
Oh quanto ancor mi piace! e chi fia mai?
Deh fate, o Numi, voi, che questo sogno
Per me si volga in ben. Così diss'ella.
Quindi rizzossi, e corse tosto in traccia
Delle compagne sue; dolci compagne,
Tutte d'età, di nobiltà, di voglie

A lei conformi. Ella solea con queste
Tutto il dì sollazzarsi, e allor che al ballo
Si disponeva, e quando sulle rive
S'abbellia dell'Anauro, e quando al prato
China cogliea tra l'erba i bianchi gigli.
Presto incontrolle; esse veniano, e in mano
Recavan tutte un cestellin da fiori.
Andaro ai prati, presso cui dal lido
Azzurra si stendea l'ampia marina:
Quivi solean raccorsi; e quivi insieme
Godean concordi e delle fresche rose,
E del flottar monotono dell'onda.
Seco recava Europa un cestin d'oro,
Bellissimo a vedersi, e di Vulcano
Opra stupenda. Questi a Libia, alloră
Che al talamo recossi di Nettuno,
Lo scotitor della terrestre mole,

In dono il diede, e Libia alla sua nuora,
Alla bella il donò Telefaessa;

Questa ad Europa, alla sua vergin figlia,
Fatto quindi ne avea nobil presente.
Con arte industre in quello erano espresse
Mille cose vaghissime e lucenti.
Effigiata in or vi si vedeva

Io sventurata, d'Inaco la figlia;

Che priva ancor del femminil sembiante,
E giovenca all'aspetto, il salso mare
Co' piè scorreva, di chi nuota in guisa.
Di ceruleo color v'erano i flutti,

E v'eran due, che da un ciglion del lido
Stavano insieme il mar mirando, e quella
Che il mar guardava candida giovenca.

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