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Avventò questi un colpo a Rodipanc
Ma la lancia s'infisse nel brocchiero.
Gían così combattendo e topi e rane,
E faceasi il conflitto ognor più fiero,
Allorquando un eroe vago di gloria
Fra' topi il grido alzò della vittoria.

CANTO QUARTO.

Era nel campo il prence Rubatocchi,
Giovine di gran cor, d'alto lignaggio,
Già capital nemico de' ranocchi,
Caro figliuol d'Insidiapane il saggio,
Il più forte fra' topi ed il più vago,
Che di Marte parea la vera immago.
Questi sul lido in rilevato loco

Si pone, e a' topi suoi grida e schiamazza;
Le schiere aduna, e giura che fra poco
Delle ranocchie struggerà la razza:
E lo faria davver, ma il Padre Giove
Già delle rane a compassion si move.
Ahimè, dice agli Dei, che vedo in terra!
Rubatocchi il figliuol d'Insidiapane
Distrugger vuol con ostinata guerra
Tutta quanta la schiatta delle rane;
E forze avria per farlo ancorchè solo,
Ma Palla e Marte manderem sul suolo.
E che pensasti mai? Marte rispose;
Con tal sorta di gente io non mi mesco,
Per me, Padre, non sono queste cose,
E se le voglio far, non ci riesco :
Nè Pallade pur lei dal Ciel discesa
Meglio riuscirebbe in quest'impresa.

Tutti piuttosto discendiamo insieme.
Ma certo i dardi tuoi saran bastanti:
Il fulmin tuo, che tutto il mondo teme,
Che Encelado sconfisse e i suoi Giganti,
Scaglia sui topi, e spergersi ogni schiera
Vedrai tosto e fuggir l'armata intiera.

Disse, e Giove il seconda, e un dardo afferr
Prima col tuono fa che il ciel si scuota,
E traballi dai cardini la terra;
Poscia tremendamente il fulmin rota,

Lo scaglia; ed ecco il campo in un momento
Pieno di confusione e di spavento.

Presto i topi però, rotto ogni freno,
Le rane ad inseguir tornano, e tosto
Cedon le rane all'urto e vengon meno:
Ma Giove le vuol salve ad ogni costo;
E a confortar la fuggitiva armata,
Al campo arrivar fa truppa alleata.

Venner certi animali orrendi e strani
Con otto pie, due capi e bocca dura;
Gli occhi nel petto avean, fibre per mani;
Le spalle risplendenti per natura,
Obliquo camminare, e largo dosso;
Le lor branche e la pelle eran sol osso.
Granchi detti son essi; e alla battaglia
I lor feroce stuolo appena è giunto,
Che a pugnar prende, e mena colpi, e taglia,
E faccia alla tênzon cangia in un punto.
De' topi le speranze omai son vane,
Già più liete a pugnar tornan le rane.
Quei code e piè tagliavano col morso,
E fer tremenda strage innanzi sera,
Rompendo ogni arma ostil solo col dorso.
Cadeva il Sol: de' topi alfin la schiera
Confusa si ritrasse e intimorita;
E fu la guerra in un sol dì compita.

LA BATRACOMIOMACHIA RIFATTA.

(1826)

CANTO PRIMO.

Sul cominciar del mio novello canto,
Voi che tenete l'eliconie cime
Prego, vergini Dee, concilio santo,
Che'l mio stil conduciate e le mie rime;
Di topi e rane i casi acerbi e l'ire,
Segno insolito a i carmi, io prendo a dire.

La cetra ho in man, le carte in grembo; or da
Voi principio e voi fine a l'opra mia:
Per virtù vostra a la più tarda etate
Suoni, o Dive, il mio carme; e quanto fia
Che in questi fogli a voi sacrati io scriva,
In chiara fama eternamente viva.

I terrigeni eroi, vasti giganti,
Di que' topi imitò la schiatta audace:
Di dolor, di furor caldi spumanti,
Vennero in campo: e se non è fallace
La memoria e 'l rumor ch'oggi ne resta,
La cagion de la collera fu questa.

Un topo, de le membra il più ben fatto,
Venne d'un lago in su la sponda un giorno.
Campato poco innanzi era d'un gatto
Ch'inseguito l'avea per quel dintorno:
Stanco, faceasi a ber, quando un ranocchio,
Passando da vicin, gli pose l'occhio.

E fatto innanzi, con parlar cortese,
Che fai, disse, che cerchi, o forastiero?
Di che nome sei tu, di che paese?
Onde vieni, ove vai? narrami il vero:
Che se buono e leal fia ch'io ti veggia,
Albergo ti darò nella mia reggia.

Io guida ti sarò; meco verrai
Per quest'umido calle al tetto mio:
Ivi ospitali egregi doni avrai;
Che Gonfiagote il principe son io;
Ho ne lo stagno autorità sovrana,
E m'obbedisce e venera ogni rana:

Che de l'acque la Dea mi partoriva,
Poscia ch'un giorno il mio gran padre Limo
Le giacque in braccio a l'Eridano in riva.
E tu m'hai del ben nato: a quel ch'io stimo,
Qualche rara virtute in te si cela;

Però favella, e l'esser tuo mi svela.

E'l topo a lui: Quel che saper tu brami Il san gl'Iddii, sallo ogni fera, ogni uomo. Ma poi che chiedi pur com'io mi chiami, Dico che Rubabriciole mi nomo: Il padre mio, signor d'anima bella, Cor grande e pronto, Rodipan s'appella. Mia madre è Leccamacine, la figlia Del rinomato re Mangiaprosciutti. Con letizia comun de la famiglia, Mi partorì dentro una buca; e tutti I più squisiti cibi, e noci e fichi, Furo il mio pasto a que' bei giorni antichi. Che d'ospizio consorte io ti diventi, Esser non può: diversa è la natura. Tu di sguazzar ne l'acqua ti contenti: Ogni miglior vivanda è mia pastura; Frugar per tutto, a tutto porre il muso, E viver d'uman vitto abbiamo in uso.

Rodo il più bianco pan, ch'appena cotto, Dal suo cesto, fumando, a sè m'invita; Or la tortella, or la focaccia inghiotto Di granelli di sesamo condita; Or la polenta ingrassami i budelli, Or fette di prosciutto, or fegatelli. Ridotto in burro addento il dolce latte, Assaggio il cacio fabbricato appena; Cerco cucine, visito pignatte E quanto all'uomo apprestasi da cena; Ed or questo or quel cibo inzuccherato Cred'io che Giove invidii al mio palato.

Nè pavento di Marte il fiero aspetto; E se pugnar si dee, non fuggo o tremo.

De l'uom anco talor balzo nel letto,

De l'uom ch'è sì membruto, ed io nol temo;
Anzi pian pian gli vo rodendo il piede,
E quei segue a dormir, nè se n'avvede.

Due cose io temo; lo sparvier maligno,
E'l gatto, contra noi sempre svegliato.
S'avvien che'l topo incorra in quell'ordigno
Che trappola si chiama, egli è spacciato;
Ma più che mai del gatto abbiam paura:
Arte non val con lui, non val fessura.
Non mangiam ravanelli o zucche o biete:
Questi cibi non fan pel nostro dente.
A voi, che di null'altro vi pascete,
Di cor gli lascio e ve ne fo presente.
Rise la rana e disse: Hai molta boria;
Ma dal ventre ti vien tutta la gloria.

Hanno i ranocchi ancor leggiadre cose E ne gli stagni loro e fuor de l'onde. Ciascun di noi su per le rive erbose Scherza a sua posta, o nel pantan s'asconde; Però ch'al gener mio dal Ciel fu dato Notar ne l'acqua e saltellar nel prato. Saper vuoi se'l notar piaccia o non piaccia ¦ Montami in su le spalle: abbi giudizio; Sta saldo: al collo stringimi le braccia, Per non cader ne l'acqua a precipizio: Così verrai per questa ignota via Senza rischio nessuno a casa mia.

Così dicendo, gli omeri gli porse.
Balzovvi il sorcio e con le mani il collo
Del ranocchio abbracciò, che ratto corse
Via da la riva, e seco trasportollo.
Rideva il topo, e rise it malaccorto
Finchè si vide ancor vicino al porto.

Ma quando in mezzo al lago ritrovossi
E videsi la ripa assai lontana,
Conobbe il rischio, si pentì, turbossi;
Fortemente stringevasi a la rana;
Sospirava, piangea, svelleva i crini
Or se stesso accusando, ora i destini.
Voti a Giove facea, pregava il Cielo
Che soccorso gli desse in quell'estremo,
Tutto bagnato di sudore il pelo.

Stese la coda in acqua, e come un remo

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