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l'operarono; e con tutto questo non possiamo tener le l grime a leggerla semplicemente come passasse, ventiti secoli dopo ch'ell'è seguita; abbiamo a far congettura quello che la sua ricordanza dovesse potere in un Grec e poeta, e de' principali, avendo veduto il fatto, si pu dire, cogli occhi propri, andando per le stesse città vir citrici d'un esercito_molto maggiore di quanti altri si r corda la storia d'Europa; venendo a parte delle feste delle maraviglie, del fervore di tutta una eccellentissim nazione, fatta anche più magnanima della sua natura dall coscienza della gloria acquistata, e dall'emulazione d tanta virtù dimostrata pur allora dai suoi. Per quest considerazioni riputando a molta disavventura che le cos scritte da Simonide in quella occorrenza fossero perdute. non ch'io presumessi di riparare a questo danno, ma com per ingannare il desiderio, procurai di rappresentarm alla mente le disposizioni dell'animo del poeta in que tempo; e con questo mezzo, salva la disuguaglianza degl ingegni, tornare a fare la sua canzone: della quale ic porto questo parere, che o fosse maravigliosa, o la fama di Simonide fosse vana e gli scritti perissero con poca ingiuria. Voi, signor cavaliere, sentenzierete se questo mio proponimento abbia avuto più del coraggioso o del temerario; e similmente farete giudizio della seconda Canzone, ch'io v'offro insieme coll'altra candidamente; e come quello che facendo professione d'amare più che si possa la nostra povera patria, mi tengo per obbligato d'affetto e riverenza particolare ai pochissimi Italiani che sopravvivono. E ho tanta confidenza nell'umanità dell'animo vostro, che quantunque siate per conoscere al primo tratto la povertà del donativo, m'assicuro che lo accetterete in buona parte; e forse anche l'avrete caro; per pochissima o niuna stima che ne convenga fare al vostro giudizio.

DEDICATORIA

DELLA PRIMA EDIZIONE DELLA CANZONE

AD ANGELO MAI.

1820.

AL CONTE LEONARDO TRISSINO.

Voi per animarmi a scrivere mi solete ricordare che la storia de' nostri tempi non darà lode agl'Italiani altro che nelle lettere e nelle sculture. Ma eziandio nelle lettere siamo fatti servi e tributari; e io non vedo in che pregio ne dovremo esser tenuti dai posteri; considerando che la facoltà dell'immaginare e del ritrovare è spenta in Italia; ancorchè gli stranieri ce l'attribuiscano tuttavia come nostra speciale e primaria qualità; ed è secca ogni vena di affetto e di vera eloquenza. E contuttociò quello che gli antichi adoperavano in luogo di passatempo, a noi resta in luogo di affare. Sicchè diamoci alle lettere quanto portano le nostre forze; e applichiamo l'ingegno a dilettare colle parole, giacchè la fortuna ci toglie il giovare co' fatti: com'era usanza di qualunque de' nostri maggiori volse l'animo alla gloria. E voi non isdegnate questi pochi versi ch'io vi mando. Ma ricordatevi ch'ai disgraziati si conviene il vestire a lutto, ed è forza che le nostre canoni rassomiglino ai versi funebri. Diceva il Petrarca, ed 10 son un di quei che'l pianger giova. Io non posso dir questo, perchè il piangere non è inclinazione mia propria, ma necessità de' tempi e volere della fortuna.

(La stessa Dedicatoria rifatta nel 1824.)

Voi per animarmi a scrivere siete solito d'ammonirmi che l'Italia non sarà lodata nè anco forse nominata nelle

storie de' tempi nostri, se non per conto delle lettere e delle sculture. Ma da un secolo e più siamo fatti servi e tributari anche nelle lettere: e quanto a loro io non vedo in che pregio o memoria dovremo essere, avendo smarrita la vena d'ogni affetto e d'ogni eloquenza, e la sciataci venir meno la facoltà dell'immaginare è del ri trovare; non ostante che ci fosse propria e speciale, in modo che gli stranieri non dismettono il costume d'attri buircela. Nondimeno restandoci in luogo d'affare quel che i nostri antichi adoperavano in forma di passatempo, non tralasceremo gli studi, quando anche niuna gloria ce ne debba succedere; e non potendo giovare altrui colle azioni applicheremo l'ingegno a dilettare colle parole. E voi non isdegnerete questi pochi versi ch'io vi mando. Ma ricor datevi che si conviene agli sfortunati di vestire a lutto e parimente alle nostre canzoni di rassomigliare ai versi funebri. Diceva il Petrarca: ed io son un di quei che'l pianger giova. Io non dirò che il piangere sia natura mia propria, ma necessità de' tempi e della fortuna.

DEDICATORIA

PREMESSA ALLA PRIMA EDIZIONE DI FIRENZE (1).

AGLI AMICI SUOI DI TOSCANA.

Amici miei cari, sia dedicato a voi questo libro, dove io cercava, come si cerca spesso colla poesia, di consacrare il mio dolore, e col quale al presente (nè posso già dirlo senza lacrime) prendo comiato dalle lettere e dagli studi. Sperai che questi cari studi avrebbero sostentata la mia vecchiezza, e credetti colla perdita di tutti gli altri piaceri, di tutti gli altri beni della fanciullezza e

(1) Canti del conte Giacomo Leopardi. Firenze, per Guglielmo Piatti, 1831

ella gioventù, avere acquistato un bene che aa nessuna orza, da nessuna sventura mi fosse tolto. Ma io non veva appena vent'anni, quando da quella infermità di ervi e di viscere, che privandomi della mia vita, non i dà speranza della morte, quel mio solo bene mi fu idotto a meno che a mezzo; poi, due anni prima dei renta, mi è stato tolto del tutto: e credo oramai per empre. Ben sapete che queste medesime carte io non ho otuto leggere, e per emendarle m'è convenuto servirmi egli occhi e della mano d'altri. Non mi so più dolere, riei cari amici; e la coscienza che ho della grandezza lella mia infelicità, non comporta l'uso delle querele. To perduto tutto: sono un tronco che sente e pena. Se on che in questo tempo ho acquistato voi: e la compania vostra, che m'è in luogo degli studi, e in luogo di gni diletto e di ogni speranza, quasi compenserebbe i iei mali, se per la stessa infermità mi fosse lecito di oderla quant'io vorrei, e s'io non conoscessi che la mia ortuna assai tosto mi priverà di questa ancora, costrinendomi. a passar gli anni che mi avanzano, abbandonato la ogni conforto della civiltà, in un luogo dove assai neglio abitano i sepolti che i vivi. L'amor vostro mi rinarrà tuttavia e mi durerà forse ancor dopo che il mio Corpo, che già non vive più, sarà fatto cenere. Addio. l vostro Leopardi.

Firenze, 15 dicembre 1830.

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