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VOLGARIZZAMENTO

DELLA

SATIRA DI SIMONIDE SOPRA LE DONNE.

(1823)

Giove la mente de le donne e l'indole In principio formò di vario genere. Fe tra l'altre una donna in su la tempera Del ciacco; e le sue robe tra la polvere Per casa, ruzzolando, si calpestano. Mai non si lava nè'l corpo nè l'abito, Ma nel sozzume impingua e si rivoltola. Formò da l'empia volpe un'altra femmina Che d'ogni cosa, o buona o mala o siasi Qual che tu vogli, è dotta; un modo, un anim Non serba; e parte ha buona e parte pessima. Dal can ritrasse una donna maledica Che vuol tutto vedere e tutto intendere. Per ogni canto si raggira e specola, Baiando s'anco non le occorre un'anima; Nè per minacce che'l marito adoperi, Nè se d'un sasso la ritrova e cacciale Di bocca i denti; nè per vezzi e placide Parole e guise, nè d'alieni e d'ospiti Sedendo in compagnia, non posa un attimo, Che sempre a voto non digrigni e strepiti. Fatta di terra un'altra donna diedero Gli Eterni a l'uomo in costui pena e carico. Null'altro intende, fuorchè mangia e corcasi; E'l verno, o quando piove e'l tempo è rigido, Accosto al focolar tira la seggiola.

Dal mare un'altra donna ricavarono,
Talor gioconda, graziosa e facile,

Tal che gli strani, a praticarla, esaltanla
Per la donna miglior che mai vedessero:

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VOLGARIZZAMENTO DELLA SATIRA DI SIMONIDÉ, ECC.
Talor come la cagna intorno a i cuccioli,
Infuria e schizza, a gli ospiti, a i domestici,
A gli amici, a i nemici aspra, salvatica,
E, non ch'altro, a mirarla, spaventevole:
Qual per appunto il mar, che piano e limpido
Spesso giace la state, e in cor ne godono
I naviganti; spesso ferve ed ulula
Fremendo. È l'ocean cosa mutabile
E di costei la naturale immagine.
Una donna dal ciuco e da la cenere
Suscitaro i Celesti, e la costringono
Forza, sproni e minacce a far suo debito.
Ben s'affatica e suda, ma per gli angoli
E sopra il focolar la mane e'l vespero
Va rosecchiando, e la segreta venere
Con qualsivoglia accomunar non dubita.
Un gener disameno e rincrescevole,
Di bellezza, d'amor, di grazia povero,
Da la faina uscì. Giace nel talamo
Svogliatamente, e del marito ha stomaco:
Ma rubare i vicini e de le vittime
Spesso gode ingoiar pria che s'immolino.
D'una cavalla zazzeruta e morbida
Nacque tenera donna, che de l'opere
Servili è schiva e l'affannare abomina.
Morir torrebbe innanzi ch'a la macina
Por mano, abburattar, trovare i bruscoli,
Sbrattar la casa: non s'ardisce assistere
Al forno, per timor de la fuliggine;
Pur, com'è forza, del marito impacciasi.
Quattro e sei fiate il giorno si chiarifica
Da le brutture, si profuma e pettina
Sempre vezzosamente, e lungo e nitido
S'infiora il crine. Altrui vago spettacolo
Sarà certo costei, ma gran discapito

A chi la tien, se re non fosse o principe,
Di quei ch'hanno il talento a queste ciuffole.
Quella che da la scimmia i Numi espressero
È la peste maggior de l'uman vivere.
Bruttissima, scriata, senza natiche

Nè collo, ma confitto il capo a gli omeri:
Andando per la Terra, è gioco e favola
De' cittadini. Oh quattro volte misero
Quel che si reca in braccio questo fulmine.

Quanti mai fur costumi e quante trappole,
Come la monna suol, di tutto è pratica;
E non le cal che rida chi vuol ridere.
Giovar non sa, ma questo solo ingegnasi
E tutte l'ore intentamente medita,
Qualche infinito danno ordire e tessere.
Ma la donna ch'a l'ape è somiglievole
Beato è chi l'ottien, che d'ogni biasimo
Sola è disciolta, e seco ride e prospera
La mortal vita. In carità reciproca,
Poi che bella e gentil prole crearono,
Ambo i consorti dolcemente invecchiano.
Splende fra tutte; e la circonda e seguita
Non so qual garbo; nè con l'altre è solita
Goder di novellari osceni e fetidi.

Questa, che de le donne è prima ed ottima,
I Numi alcuna volta ci largiscono.
Ma tra noi l'altre tutte anco s'albergano
Per divin fato; che la donna è'l massimo
Di tutti i mali che da Giove uscirono;
E quei n'ha peggio ch'altramente giudica.
Perchè, s'hai donna in casa, non ti credere
Nè sereno giammai nè quieto ed ilare
Tutto un giorno condur. Buon patto io reputo
Se puoi la fame da' tuoi lari escludere,
Ospite rea, che gl'Immortali abborrono.
Se mai t'è data occasion di giubilo,

O che dal Ciel ti venga o pur da gli uomini,
Tanto adopra colei che da contendere
Trova materia. Nè gli strani accogliere
Puoi volentier se alberghi questa vipera.
Più ch'ha titol di casta, e più t'insucida;
Che men la guardi: ma si beffa e gongola
Del tuo caso il vicin: che spesso incontraci
L'altrui dannar, la propria donna estollere.
Nè ci avveggiam che tutti una medesima
Sorte n'aggreva, e che la donna è'l massimo
Di tutti i mali che da Giove uscirono.
Da Giove, il qual come ifnrangibil vincolo
Nel cinse al piè; tal che per donne a l'Erebo
Molti ferendo e battagliando scesero.

SAGGIO DI TRADUZIONE

DELL'ODISSEA

(1816)

CANTO PRIMO.

L'uom dal saggio avvisar cantami, o Diva;
Che con diverso error, poi che la sacra
Ilio distrusse, le città di molti

Popoli vide, ed i costumi apprese.
In suo core egli pur di molti affanni
Nel pelago soffrì, mentre cercava
A se la vita, ed ai compagni suoi
Comperare il ritorno. E pur nessuno,
Ben ch'il bramasse, ne salvò! Periro
Tutti per lor follia, stolti! che i buoi
Mangiar del Sole eccelso: ei del ritorno
Lor tolse il dì. Figlia di Giove, alquanto
Dinne di questi casi ancora a noi.

Gli altri che il fato acerbo avean fuggito,
Nelle lor case erano già, campati
Dalla guerra e dal mar. Lui solo ancora
E del ritorno e della moglie privo
In cavi spechi ritenea Calisso;
Inclita Ninfa e Diva, che di farlo

Suo sposo avea desio. Ma quando il tempo
Venuto fu col volgere degli anni,

In che piacque agli Dei che al patrio tetto
In Itaca ei tornasse; allor finiti

Non furo i suoi travagli, ancor che in mezzo
A' suoi cari egli fosse. Ognun de' Numi
N'ebbe pietà, salvo Nettun; che fermo
Nell'ira sua contro il divino Ulisse
Restò, fin ch'ei non giunse al suol natio.

Agli Etiopi lontani ito era il Nume
(Agli Etiopi, del mondo ultima schiatta
In due partita: gli uni al Sol che cade,
Gli altri sono all'aurora), onde presente
Il sacrificio accor d'un'ecatombe
D'agnelli e tori. Ivi al convito assiso
Stavasi con piacer. Ma gli altri Dei
S'eran raccolti dell'Olimpio Giove
Nella vasta magione. Ad essi il padre
Degli uomini e de' Numi a parlar prese;
Che ricordossi del preclaro Egisto,
Cui morto aveva il rinomato figlio
D'Agamennone, Oreste. Or lui membrando,
Favellò tra gli Eterni in questi accenti:
Ci accusano i mortali, oh stolti! e danno
Delle sventure lor la colpa ai Numi:
E sì per lor follia soffrono affanni
Non voluti dal fato. Egisto appunto
Del destino a ritroso or or la moglie
D'Agamennon si tolse a sposa, e lui
Tornato uccise: e pur l'acerbo fine
Che l'attendea, non ignorò. Spedito
Gli avevamo noi già Mercurio, d'Argo
Il veggente uccisor, che gli disdisse
Spegner l'Atride, e tor la moglie a sposa,
Ed avvisato il fe come da Oreste
Cresciuto d'anni e in bramosia venuto
Delle sue terre, Agamennon vendetta
Avuto avria. Così Mercurio a lui
Saggiamente parlò, ma nol rimosse
Dal suo pensiero. Or quegli a un tempo solu
Tutto pagò del mal oprar il fio.

A lui Minerva dalle azzurre luci
Così poscia rispose: O nostro padre,
Saturnio Dio, sommo de' re, tal sorte
Quel meritossi assai: così perisca
Chi com'egli oprerà. Ma per Ulisse
Il battaglioso mi si strugge il core:
Misero che lontan da' cari suoi

Da gran tempo sopporta immensi affanni,
In un'isola d'arbori nutrice

Tutta cinta dall'acque; ove del mare
È l'umbilico, e dove in sua magione
Ha ricetto una Dea figlia d'Atlante;

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