Cui tutto è noto, che del mar gli abissi Tutti conosce, e che la terra e il cielo Sopra colonne altissime sorregge. La figliuola di lui ritiene a forza Il misero piangente; e ognor con dolci Molli detti il carezza, affin che il prenda D'Itaca oblio. Ma di sua terra almeno Veder bramando Ulisse alzarsi il fumo, Morir desia. Nè da pietade infine Il tuo cor sarà tocco, Olimpio Dio? Nell'ampia Troia non ti fece Ulisse Presso alle navi achee gradite offerte? E d'onde, o Giove, contro lui tant'ira? Giove de' nembi adunatore a lei Rispose: O figlia mia, quai detti uscirti Dalla chiostra de' denti? Il divo Ulisse Come obbliar potrei; ch'ogni mortale Vince in prudenza, e al par di cui non èvvi Uom ch'abbia offerte agl'immortali Numi Ch'abitan l'ampio ciel, vittime sacre? Ma Nettuno che il suol tutto circonda, Di terribile sdegno è sempre acceso, Per il Ciclope ch'ei dell'occhio ha privo, Per Polifemo a Nume ugual, che avanza Tutti i Ciclopi in gagliardia. La ninfa Toosa partorillo, a cui fu padre Forcine, un Dio dell'infecondo mare, A Nettuno commista in cavi spechi. Morto Ulisse non ha lo scotitore Della terra Nettun; ma da quel tempo Lungi lo tiene dalla patria sede. Cerchiam però fra noi come sia d'uopo Far che in Itaca ei giunga, onde al suo regno Torni quegli, e Nettun l'ira deponga; Poi che di tutti gl'Immortali ad onta Niun potere egli avrà, nè fia che sappia Solo cozzar con i contrarii Dei.
Ed a lui poscia l'occhi-glauca Diva Minerva replicò: Saturnio nume, Padre di noi, sommo de' re, se fermo Hanno i beati Dei che al patrio tetto Ritorni Ulisse il battaglier, messaggio D'Argo l'ucciditor tosto all'Ogigia Isola si spedisca; ond'ei trascorso
Velocissimamente, a quella ninfa Da' bei cincinni faccia conto il nostro Infallibil voler: torni il paziente Ulisse al suol nativo:
e degli Eterni Adempiasi il decreto. Io recherommi In Itaca a destar nel figlio suo
Ardimento più grande, e a porgli in core Valenteria, sì che, i chiomati Achivi Raccolti a parlamento, i Proci affronti Che sempre dense greggi, e neri buoi Uccidendo gli van di curvi piedi. A Sparta pure e all'arenosa Pilo Il manderò, perchè novelle cerchi Del ritorno del padre, ove pur sia Che alcuna udirne gli addivenga; e affine Che tra gli uomini s'abbia inclita fama. Ciò detto, a' piè legossi i bei talari D'oro, immortal, che sopra l'acque e sopra L'immensa terra la portavān ratta Come il soffio de' venti. In mano quindi Si tolse l'asta poderosa, armata D'acuto ferro, grave, salda, enorme, Con cui riversa degli eroi le squadre, Che lei di forte genitor figliuola Han mossa a corrucciarsi: e giù discese Precipitante dall'Olimpie vette.
In Itaca fermossi, e del palagio D'Ulisse si ristette anzi alle porte, Dell'atrio al limitare; in man tenendo L'asta di rame; e per sembiante uguale A Mente, uno stranier, de' Tafi il rege. Gli alteri Proci ritrovò che allora Contra alle porte şi prendean sollazzo, A' calcoli giuocando, e sulle pelli Sedevansi di buoi da lor già morti. D'intorno araldi e presti servi o l'acqua Mesceano e il vin nell'urne, o con ispugne Piene di fori detergean le mense, O le coprian di cibi, e larga copia Partivano di carni. Or lei primiero Telemaco mirò simile a Nume,
Poi che tristo in suo cor sedea tra i Proci Colla mente vedendo il padre illustre,
E il suo ritorno rivolgea nell'alma,
Se pur giammai tornato ei per la reggia Sperger doveva i Proci, e onore aversi E de' suoi beni il dritto. E mentre quivi Tenea fisso il pensier tra i Proci assiso, Di Minerva s'accorse, e drittamente Ver la soglia inviossi: a sdegno avendo Che per gran pezza un ospite si stesse Anzi alle porte. Gli si fe vicino,
La destra man gli prese, e l'enea lancia Si tolse, e indirizzogli alati detti:
Ospite, il Ciel ti salvi; amicamente Noi ti raccoglierem: che t'abbisogni Palese ne farai dopo la cena.
Ciò detto, innanzi andò, Palla il seguìa. Poi che fur dentro alla magione eccelsa, Quegli a un'alta colonna appoggiò l'asta In un polito armadio, ove molt'altre N'avea d'Ulisse il paziente, e Palla Ad un seggio condusse; un vago strato D'ingegnoso lavor sopra vi stese, E lei seder vi fe: sotto de' piedi Uno sgabel n'avea. Per se It presso Collocò poscia un variato scanno,
Lungi da' Proci; affin che in mezzo essendo A que' superbi, e dal tumulto offeso L'ospite a schifo non prendesse il pasto; E per chiedere a lui qualche novella Del genitor lontano. Acqua a lavarsi Da leggiadra urna d'or piovve una fante Su d'argenteo bacino; e loro innanzi Trasse polita mensa. Il pane e molti Cibi recò che allora in serbo avea, La vereconda dispensiera. Addusse Sopra i taglieri e collocò lo scalco Carni d'ogni maniera in sulla mensa Con auree tazze. Ministrando il vino Un sollecito araldo intorno giva.
Entràr gli alteri Proci, e in ordinanza Su scanni e seggi si locàr: gli araldi Dieron acqua alle mani, e ne' canestri Le ancelle il pane accumularo. Ai cibi Apparecchiati e posti loro innanzi Steser quelli le destre, e di bevanda Incoronaron l'urne i giovinetti.
Poi che di bere e di mangiare i Proci Deposero il desio, d'altro lor calse, Del canto e della danza (gli ornamenti Questi son del convito), e a Femio in mano Pose un araldo la leggiadra lira.
Da forza astretto egli cantava innanzi A' Proci, e dilungando il suo bel canto, In pria le corde percuotendo giva.
Ma Telemaco à Palla occhi-cilestra A parlar prese, e avvicinolle il capo Per ch'altri non l'udisse: Ospite caro, Ti muoverà quel ch'io dirotti a sdegno? Questo preme a costor, la cetra e il canto, E di leggier, che consumando vanno Impunemente il vitto altrui, d'un uomo Di cui le candid'ossa in qualche parte O sopra il suol corrompono le piogge, O volve l'onda in mar. Che se tornato In Itaca il vedessero, più presti Vorrebbon tutti esser di piè, che ricchi Di vestimenta e d'or. Ma d'aspro fine Egli è perito, e speme a noi non resta; Comunque alcun che nella terra alberga, Dica ch'ei tornerà. Pur s'è perduto
Il dì del suo ritorno. Orsù mi narra Chi sia tu mai, senza dubbiare, e donde; In qual region co' genitori tuoi
Sia la tua patria, e su qual nave or giunto In Itaca ne sia. Dì pure, e come I marinai qua t'hanno scorto? ed essi Chi sono a detta lor? Certo che a piedi Qua sia venuto io non istimo. Il tutto Dimmi sinceramente; affin ch'io vegga Se nuovo or giungi, o se del padre mio Ospite ancor tu sei: quando molt'altri Alla nostra magion veniano un tempo; Che degli uomini amico era egli pure. A lui rispose l'occhi-glauca Dea Palla così: Tanto dirotti al certo Senza punto dubbiar. Figlio mi vanto D'Anchialo il battaglier; mentre son 10 Che impero a' Tafi in navigare esperti. Così con un naviglio e con compagni Il negro mare valicando giunsi,
Tra gente d'altra lingua or in Temesa Rame a tòrre men vo, meco recando Lucido ferro. La mia nave è al campo Lungi dalla città nel porto Retro Sotto al Neio dall'ampie selve. Invero Mutui de' padri nostri ospiti antichi Noi ci diciamo; e udir lo puoi dal vecchio Eroe Laerte, a lui n'andando. È fama Ch'ei più non venga alla città, ma soffra La doglia sua lungi dagli altri in villa, Con una vecchia fante che di cibo E di bevanda gli ministra allora Che spossatezza gli occupa le membra, Poi che per entro a una ferace vigna Strascinando s'andò. Qua dunque io venni Perchè dicean che s'era già tornato Alla sua terra il padre tuo. Ma fanno Al suo viaggio impedimento i Numi: Che non è morto il divo Ulisse ancora; Ma vivo in mezzo al vasto mare, in qualche Isola, intorno a cui s'aggira il flutto, È ritenuto; e fiera gente e rozza
D'Itaca mal suo grado il tien lontano. Pur quello io predirò che gl'Immortali Pongonmi nella mente, e ch'esser dee, Se mal non penso, poi che vate o sperto Interprete d'augurii io già non sono: Dal suol natio per molto tempo ancora Ei lungi non sarà. Cinto pur fosse Da ferrei lacci, di tornar saprebbe Trovar la via, ch'astuto egli è. Ma dimmi Senza dubbiar, se figlio sei d'Ulisse, Tale qual ti veggio: che certo al capo Ed ai begli occhi lo somigli assai. Prima ch'ei gisse ad Ilio, ove molt'altri Su' concavi navigli argiví eroi
Del pari si recàr, soventi fiate.
Ambo noi fummo insiem. Da quindi innanzi Veduto non l'ho più, più non m'ha visto. E novamente a lei parlando, il saggio Telemaco rispose: Ospite, il vero Senza punto dubbiar dirotti. Afferma La madre mia che suo figliuolo io sono: Ma questo non m'è conto, e alcun non avvi
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