Insegnando ti van. D'Itaca cinta.
Tutta dal mar, deh! che il paterno impero Darti non piaccia di Saturno al figlio.
E poscia a lui sì fattamente il saggio Telemaco rispose: A sdegno forse, Antinoo, prenderai quel che dirotti? Gradevolmente questo ancor, se Giove Mel consentisse, accetterei. Che? dunque Per gli uomini il peggior di tutti i mali Questo ti sembra? E non è già per nulla Dura cosa il regnar. Del re l'albergo Ricco tosto diviene, e a lui si fanno Più grandi onori. In Itaca che cinta. Tutta è dal mare, hanno però molt'altri Prenci d'Achei, giovani e vecchi; e morto Il divo Ulisse, questo regno aversi Può bene alcun di lor. Ma della nostra Magione io sarò prence, e degli schiavi Di che signor m'ha fatto il divo Ulisse. A lui rispose di Polibo il figlio Eurimaco così: Qual degli Achivi In Itaca dal mar tutta ricinta
Abbia a regnar, questo dei Numi è posto Sulle ginocchia. I beni tuoi possiedi E alla tua casa impera. Alcun giammai La tua sostanza a depredar non venga Contro tuo grado, in fin che abitatori In Itaca saran. Ma chieder voglio, Ottimo prence, a te, donde quell'uomo Ch'ospite qua ne venne; e di qual terra Egli si dica; in qual regione alberghi La gente di sua schiatta; e dove ei s'abbia I patrii campi. Reca forse nuova Del genitor che torna? o pagamento Di debito ricerca? Oh come sorse E dileguossi immantinente; e ch'altri Il conoscesse non sostenne! Al certo Uom nequitoso non sembrava al volto. Telemaco il prudente a lui rispose: Eurimaco, perì del padre mio
Il ritorno senz'altro; ed a novelle,
Se avvien che n'oda alcuna, io più non credo; Nè, se la madre mia qualche indovino
Chiama alla reggia e lo dimanda, io curo
i vaticinii suoi. Quegli è di Tafo, Paterno ospite mio: d'esser si pregia Mente figliuol del battaglioso Anchialo; E regge i Tafi in navigare esperti. Egli disse così, ma ch'una Diva Immortale era quella in cor sapea. Givansi intanto sollazzando i Proci Alle carole 'ntesi, e al dolce canto, In aspettando ch'Espero giungesse; E mentre a sollazzarsi erano volti, Il negro Espero giunse. Ivano allora Quei tutti a riposarsi alle lor case: E Telemaco pure ove un eccelso Talamo avea di bella corte, in luogo Cospicuo d'ogni parte, al letto andossi; Molte fra se volgendo inquiete cure. Seco giva, recando accese faci, La pudica Euriclea d'Opi figliuola, Che figlia fu di Pisenor. L'avea Compra Laerte pubescente ancora Co' beni suoi, di venti bovi al prezzo; E in sua magione della moglie al pari Onorata l'avea: ma la consorte
Per non muovere a sdegno, unqua non s'era Con lei meschiato in letto. Or ella insieme Con Telemaco gìa (cui più di tutte L'altre fantesche amava e che fanciullo Nutrito avea), recando accese faci. Del ben costrutto talamo le porte Dischiuse tosto; e sopra il letto allora Telemaco s'assise e dispogliossi
Della tunica molle; indi all'attenta Vecchia la porse. L'assettò, piegolla Essa, e vicino al pertugiato letto
L'appese a un cavicchiuol. Poi dalla stanza Pronta levossi; e per l'anel d'argento A se tratta la porta, il chiavistello Giù cader fe colla coreggia. Ascoso Sotto coltre di lana, ivi pensando Quegli si stiè tutta la notte: e seco Cercando gia come fornir dovesse, Giusta il detto di Palla, il suo viaggio.
LIBRO SECONDO DELLA. ENEIDE.
Ammutirono tutti, e fissi in lui Teneano i volti; allor che il padre Enea Si cominciò da l'alto letto: Infando, O regina, è il dolor cui tu m'imponi Che rinnovelli. I' dovrò dir da' Greci I Teucri averi e il miserando regno Come fosser diserti: io dire i casi Tristissimi dovrò, cui vidi io stesso E di che fui gran parte. E qual potrebbe O Mirmidòne, o Dolope, o seguace Del fero Ulisse rattenere il pianto Tai cose in ragionando? E omai dal cielo Precipita la notte umida, e gli astri Vanno in cader persuadendo il sonno. Ma se cotanto hai di saper desio I nostri casi, e l'ultima sciagura Se ti diletta in brevi accenti espressa Di Troia udir, benchè membrarla orrendo A l'alma sia, che addolorata il fugge; Comincerò. Da guerra affievoliti
E dal destin respinti i duci Achivi Dopo tant'anni, da Minerva istrutti Divinamente, di montagna in guisa Dansi un cavallo a fabbricar, le sue Coste intessendo di segato abete, E voto il fingon pel ritorno. Errando Tal fama vassi. Entro dal seno oscuro Occultan Greci a sorte eletti, e il ventre E le spaziose grotte empion d'armati. Tenedo è incontro ad Ilio; isola ovunque Nota per fama, e ricca, allor che il regno Di Priamo stava; or già non più che seno Ed a'navigli infida stanza. I Greci
Qua giunti, s'appiattàr ne l'ermo lido E noi partiti li credemmo e volti Con opportuno vento inver Micene. Onde il suo lungo duol Dardania tutta Si disveste: spalancansi le porte: Uscirne è grato, e de gli Achivi il campo Mirare, e i luoghi solitari e il lido Abbandonato. I Dolopi guerrieri Ebbero qui lor tende, il fero Achille S'accampava colà; qui fur le flotte; La pugnar si solea. Parte de' Teucri Stupita guarda il fatal don sacrato A la vergine Pallade, e la mole Ammira del cavallo. Entro le mura A trarlo esorta e ne la rocca a porlo Timete il primo: o frode fosse, o il fato, Che d'Ilio il mal già fermo avea. Ma Capi, E chi meglio avvisava, il malsicuro Dono de' Greci insidioso, in mare Volea che si gettasse, o con sopposte Fiamme s'ardesse, o le caverne occulte Ond'esplorar, se gli forasse il fianco. Smembrasi in parti opposte il vulgo incerto, Innanzi a tutti allor con grande stuolo Laocoonte da la somma rocca
Fervido giù trascorre, e di lontano, O sventurati, o cittadini, esclama, O qual demenza mai! partiti i Greci Credete dunque, e che non rechi inganno Dono d'Achei? sì conoscete Ulisse? O rimpiattato in questo legno stassi Alcun de' Greci, o a'nostri muri avversa Tal macchina s'alzò, le case forse Ad esplorare, o ad assalir di sopra La città nostra; o qualche frode al certo Nascosa è qui. Non sia che fede abbiate Al cavallo, o Troiani. I Greci io temo, Che che sia ciò, se recan doni ancora. Si disse, e al fianco del cavallo, in parte Ove aggiunte dell'alvo eran due travi, Con poderoso impulso una gagliarda Asta avventò. L'asta ondeggiando stette, E rimbombâr de l'utero a la scossa Le grotte cupe, e un gemito mandaro.
E se i destini avversi e dissennate State non fosser nostre menti, indotti N'avria col ferro a lacerar le occulte Argoliche caverne; e tu staresti, Troia, per anco, e tu saresti adesso, Alta reggia di Priamo. Ecco fra tanto Stuol di Teucri pastori al rege innanzi Con gran tumulto un giovine traea, Le mani avvinte dietro al tergo. Ad essi Ignoto ei s'era al lor venire offerto Spontaneamente, onde afforzar l'inganno Ed Ilio a' Greci aprir; di se sicuro, E fermo in mente o di compir la frode, O di recarsi a certa morte. Intorno Al prigionier la gioventù Troiana D'ogni banda precipita, bramosa Di riguardarlo, e lo schernisce a gara. Or de' Greci le insidie ascolta, e tutti Da un sol misfatto li conosci. Inerme, Turbato, in mezzo de le Frigie schiere Com'ei si fu fermato, e gli occhi in giro Volti, a l'intorno l'ebbe rimirate,
Ahi qual terra, esclamò, qual mare accorre Me lasso puote omai? che più mi resta? Se non ho luogo tra gli Achivi, e il sangue Chiedonmi avversi in pena i Teucri ancora? Cangiò gli spirti e ogn'impeto represse Quel gemer ne' Troiani. A ragionarne Il confortiam, di qual prosapia nato Ei sia, che rechi, e prigionier che speri. Così, deposta alfin la tema, ei parla: Il tutto, o rege, e il vero, e sia che puote, Confesserò. Non negherommi in prima Nato di padre Argolico; nè sorte Perchè misero il fe, bugiardo e vano Sinon l'empia farà: se udito mai Abbi tra il ragionar di Palamede, Che dal sangue di Belo origin ebbe, Il nome a sorte e la gloriosa fama, Conto non m'è. Di tradigione apposta Con accusa nefanda il trucidaro Innocente gli Achei, perchè stornarli Volea da guerra: il piangon morto adesso. Socio a questi e parente, a l'armi il mio
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