E il consorte deluse. Allora insano Qual Dio, qual uom non incolpai? qual vidi Ne la strutta città caso più duro?
Ascanio e il padre Anchise e i Teucri Numi Ai compagni accomando, e ne la curva Valle ripongo: inver le mura io torno Cinto de l'armi rilucenti, e fermo Di rinnovare ogni vicenda, e tutta Troia correr di nuovo, ed a gli estremi Perigli espormi. In pria mi volgo ai muri Ed a la cieca porta ond'era uscito; E seguo e cerco per la buiá notte Con gli occhi intenti i miei vestigi istess Già nel venir segnati. Orror dovunque, Silenzio pur l'alma spaura. Io torno Quindi a la casa a ricercar se fosse Ivi a sorte venuta. Invasa e piena L'avean gli Achei. L'ingorda fiamma ratto Al vento s'alza tortuosa, e il sommo Tetto sormonta; furiar per l'aria S'ode l'incendio. Inoltromi e la rocca E la reggia rivedo. E già nel tempio Stavan di Giuno e ne le vote logge, Custodi eletti de la preda, il fero Laerziade e Fenice. Ivi ammontate Son le Teucre dovizie; e da gl'incensi Penetrali de' Numi e d'ogni banda Là tratte son le sacre mense e i vasi Di solid'oro e le rapite vesti. Fanciulli intorno e paurose madri Stan quivi in lunga fila. Ardii pur anco Gridar fra le tenebre, empiere i calli Di lamentanza, e mesto in van più volte Creusa, ahimè? Creusa mia chiamai. Mentre la cerco, e senza fine errando Vo per le case forsennato, apparmi Il miserando simulacro e l'ombra Di Creusa, maggior che pria non era. Istupidii, rizzossi il crine, sté
Ne le fauci la voce. Allora a dirmi Pres'ella e a consolarmi: A che ti lasci Si trasportar da folle affanno, o dolce Consorte mio? Senza voler de' Numi Questo già non t'avvien. Quinci Creusa
Portar compagna a te non lice: il vieta D'Olimpo il sommo rege. Esiglio lungo Soffrir ti converrà, solcar gran mari; In Esperia n'andrai dove tra genti E feraci campagne il Lidio Tebro Volve sue placid'onde. Ivi da' Numi Lieta ventura a te s'appresta e regno E consorte regal. Di pianger lascia La diletta Creusa. Io le superbe Mirmidoni o le Dolopi contrade
Già non vedrò: schiava a lor donne i Greci Me non trarran, Dardania prole e nuora A la Ciprigna Dea: che mi ritiene La gran madre de' Numi in queste piagge. Or finalmente addio: serba l'amore Del comun figlio. E così detto, in leve Aere conversa dileguossi; e mentre Piangendo i' pur volea dir cose assai, Abbandonommi. Allor tre volte al collo Tentai le mani avvincerle; tre volte Indarno cinta mi fuggì l'imago, Pari a fugace sogno e ad aura leve. Così la notte consumata invano, Riveggo il poggio. Ivi gran copia accolta Di novelli compagni, e madri e sposi Presti a l'esiglio, miserabil vulgo Meravigliando trovo. Eransi addotti Là d'ogni banda, a me seguir dovunque Irne pel mar volessi, alme e ricchezze Pronte recando. E su le somme vette D'Ida già l'astro mattutin sorgea, E menavane il giorno. I Greci intanto Custodivan le porte, e speme alcuna D'aita non avea. Cessi, è ritolto Sul collo il padre, a la montagna ascesi.
POEMETTO D'AUTORE INCERTO.
Avea notte invernal corso dieci ore, E l'augel de la vegghia il dì predetto Quando Simulo il rustico cultore Di breve campicel, dal rozzo letto, Temendo digiunar nel dì futuro, Scosso adagio il sopor, s'alza a lo scuro. Esplorando le tenebre a tastone Va passo passo, e giunto al focolare, S'acceso anco vi sia qualche carbone Cerca così che sentesi scottare: Pronto la man ritragge, e vede allora Il foco luccicar non morto ancora.
Un tizzon che la sera ivi riposto Simulo avea con provvido consiglio, Giacea sotto la cenere nascosto. Volgesi il buon villano e dà di piglio A la lucerna e 'n giù la piega, e chino Con l'ago slunga l'arido stoppino.
Desta col soffio il moribondo fuoco Ch'al fin chiarisce, e la lucerna accende; Poi sorge e s'incammina a poco a poco, E'l lume infermo con la man difende; Men timido e più franco indi s'avanza, E guarda, e schiava l'uscio della stanza.
Con misura, che tanto è sol capace, Sedici toglie poi libbre di grano Da scarso monticel che 'n terra giace, E presso ad una macina da mano, Sopra piccola mensa ad un cantone Del muro appesa, il lume suo depone. Striga le braccia, e di vellosa pelle Di capra cinto, il mulinello appresta. Parton l'opra tra lor le due sorelle: Insiem colei volge la ruota, e questa Versa il frumento ch'al girar del sasso Scorrendo va, fatto farina, al basso.
La destra man talor, talor la manca Compie a la volta sua l'istesso uffizio: L'una a l'altra succede quando è stanca, Sì ch'alternando van lor esercizio:
E con suo rozzo canto rusticano Alleggia sua fatica il buon villano. Cibale chiama al fin. Sol questa avea In casa il contadin fante Affricana, E fede di suo genere facea
Tutta del corpo la sembianza strana: Eran sue chiome tortuose, ed era Sua faccia di color pressochè nera. Tumido labbro, petto spazioso, Ventre e mamme giacentisi e compresse, Larga pianta, esil gamba, aspro e scabroso Calcagno avea per lunghe rughe e spesse. A questa impon che legna al focolare Arrechi ed arda, e ponga acqua a scaldare Ma della ruota già finita è l'opra. Simulo con la mano il gran raccoglie Entro uno staccio e l'abburatta, e sopra Restan le grosse cereali spoglie, Mentre purgato in sottil pioggia il grano Cade pe' fori in sul sopposto piano. A la farina poi che ragunata Ha sopra liscia tavola, dispensa Tepid'onda il villano, e l'aggrumatal Pasta scorrendo con la man l'addensa, Liquido sal vi sparge, e'l tutto insieme Mesce e volge sossopra e mena e preme, Poi ch'assodata fu la facil massa, Ei con le palme a dilatarla imprende,
Appianala, rotondala, l'abbassa, La segna in quadri uguali e la distende E la compone in aggiustato loco Che Cibale mondò vicino al foco.
Di piatti la ricopre, indi con arte La veste di carbon. Mentre Vulcano E' piatti al foco fan la loro parte, Quel non si sta con le sue mani in mano, Ma cerca d'altro cibo, onde men grato Non sia pane senz'altro al suo palato. Sopra 'I fumo non pende al suo camino Secco tronco di porco o duro tergo, Ma sol di crespo aneto ha il poverino Pendente un vecchio fascio entro l'albergo E una forma di cacio. Il villan saggio Ad altra cosa volge il suo coraggio.
Giacea presso la casa un piccol orto, E di canne e di vimini contesta Fratta'l munia. Quest'era il suo conforto Ne' tempestosi dì, ne' dì di festa, Quand'arar non potendo, era costretto Di starsi neghittoso entro 'l suo tetto. Opra sol di sue cure, ei quindi avea Quanto abbisogna a poverello; e spesso Cose assai di quell'orto richiedea Al povero cultore il ricco istesso, Ch'e' di semi il forniva, e al buon terreno Qualche vicino rio menava in seno.
La zucca ivi giacea sul ventre tondo, E malve e bieta e'l porro che nomato E da la testa, e'l romice fecondo E'l cavolo el papavero gelato E lattuga v'avea che grata viene Fra lauti messi in cittadine cene.
Ma questi cibi il povero padrone Raro a la bocca d'appressare ardia. Fasci d'erbe recando ei de le none Da la campagna a la città venia, E quindi a casa ritornar contento Scarco il capo solea, grave d'argento. Pressochè mai da cittadin macello Cibo recava a poco prezzo tolto: Di nasturcio nutriasì il poverello, Che raggrinzar fa, cui lo morde, il volto,
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