Di cipolla o vil porro, o di ruchetta Ch'a l'amorose brame i pigri alletta.
Vien dunque a l'orto, e levemente soava Con le dita il terren; quattr'agli in prima Con spesse fibre trae che 'l suol celava, Di poi ruta e coriandoli e la cima Coglie de l'appio, e torna, e al foco siede, La fante appella, ed il mortaio chiede.
Indi a que cibi il primo velo agreste E la vil buccia destramente toglie, E ad uno ad un li monda e gli disveste, Spargendo il suol de le neglette spoglie; Bagna poscia ne l'acqua e si riserba E nel mortaio getta il bulbo e l'erba.
Di sal li asperge e duro cacio e bianco, E con la destra man tratta il pestello, L'aglio ammollisce; e fa vicino al fianco Con la sinistra al rozzo lin puntello. Ammacca pria le più superbe cime, Poi tutto infrange, e un misto succo esprime. Gira il pestello, e ne l'informe pasta
Di più colori fassi un sol colore: Bianco non è, che l'erba gliel contrasta, Verde no, che gliel nega il bianco umore. Fan que' cibi in perdendo lor virtute, Una di molte lor virtù perdute.
Spesso l'acuto odor saetta il naso Che si raggrinza, al povero villano, Ond'egli il volto in ritirar dal vaso, Le lagrime col dosso de la mano Si terge; e qualche volta ito in furore, Maladice 'l suo pranzo e quell'odore. Andar vede if pestello omai più lento Vicino al fin de l'opra il villan lieto, E sul saporosissimo alimento
Stilla con parca man pungente aceto, Ed olio pure in maggior copia infonde; Il tutto poi rimesce e riconfonde.
Va con due dita intorno, e al mezzo porta La massa omai ben assodata e mista;
E per sua man la desiata torta
La sembianza in tal modo e'l nome acquista. Il pane appunto allor Cibale attenta
Tolto dal foco al contadin presenta:
Che satisfatte omai viste sue brame, E per quel dì dopo le rustich'opre Sicuro già di non morir di fame, Calza i stivali e col cappel si copre, Indi fuor esce, ed aggiogati i buoi, Gli spinge il solco a far pe' campi suoi.
DI UN'EPISTOLA DI FRANCESCO PETRARCA.
Quante volte per te, spietata morte, Stancar gli occhi e lo stil, quante degg'io Mescer lagrime ai versi, e versi al pianto! Oh prole umana; oh sovra tutte acerba Sorte d'un viver lungo! i volti esangui De' cari tuoi veder tra' sassi; il crine Lacerar tante volte, il crin caduco; E vedova condur l'ultima etate Lungamente morendo. Omai chi resta Che le luci mi chiuda e mi sotterri, Morte crudel, se tu non cessi? Ed era Questo dunque il mio fato? a tutti i miei Sopravvivere io tristo, e non potermi Consumare il dolor. Magione illustre, Ahi, ahi (torniamo ai consueti accenti): O magione infelice, or tante volte Funestata da morte. Oh pura, oh dolce Fraterna fede, alme fraterne! Oh padre Misero veramente, e voi sorelle Abbandonate! Or che sospiri e pianti A le assidue rovine, or che querela Fia pari al danno? Inclita in arme, altera Stirpe de' Colonnesi; a le minacce Del cielo immota, imperturbata al colpo Del fulmine di Giove, e non oppressa Da bilustre procella; onor di Roma In guerra, in pace, e principal suo vanto Fosti alcun tempo: a' buoni aita e schermo,
E terror de' superbi. A poco a poco Or ti dilegui: in sul volubil fuso, Crudelmente affrettando, a morte oscura Precipitan le Parche i giovanili
Stami de' tuoi. Questo al valor, quest'era Il fin dovuto a l'alte imprese, a tanti Gloriosi tuoi gesti; onde risuona
Il tuo nome e la fama in ogni piaggia? Così, mescendo a le parole il pianto E sospirando, io mi doleva. Ed ecco, Non so come, dal ciel per lo sereno Aere discesa: mi feria l'orecchio Una voce, e dicea: Contro le stelle Perchè mormori invan? Giovani e vecchi Miete del par la morte: ordine e freno Che lei stringa, non è. L'eterne leggi Franger presumeresti? O pur non sai Come le triste fila or tragge or taglia A suo piacer la Parca ed ora allunga; Nè modo ell'ha, nè cessa mai? Ne' rischi Estremi, in sul perir, l'arme non gitta Il guerrier generoso. Intanto stringe Buon nocchiero il timon fra la procella; Nè si scolora che per l'acqua sparsi Vede gli alberi e i remi; e lui ben puote L'onda ingoiar, non atterrire. Al primo Apparir de' nemici, altri le spalle Danno in trepida fuga; ed altri agghiaccia Un lieve mormorar d'austro che sorge, E de le corde il sibilo sottile
In tempesta nascente. A questi arreca Essa viltà vili perigli. Al forte Un magnanimo fin diedero i fati.
Tu, di fortuna al dardeggiar, sì tosto Il valor perdi? e de la vita ai flutti Lasci, per picciol vento, il legno in preda? Arme non hai se non il pianto? indarno Ti fien gli studi e le trattate carte? Non in pace il gagliardo e non s'estima Il nocchier ne la calma: infra i perigli Arte e virtù rifulge. Error non d'uomo Ma di fanciul: cose mortali e brevi Stimare eterne. Indi, cadute, il duolo V'accora e vi consuma: obblio vi prende
E sconoscenza del passato; il bene Che fortuna vi diè (pur questo solo Dovria parervi assai) ch'essa il ritolga Parvi gran torto. Ora il tesor che in mano Altri ti fida, o tu riceva o renda,
Un volto istesso aver conviensi. E poscia Che incerta è l'ora, esser tuttora in pronto Al cenno di colei, che ridimanda Quel che prestato avrà.....
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