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ANNOTAZIONI FILOLOGICHE

FATTE

DAL LEOPARDI ALLE SUE PRIME DIECI CANZONI

E PUBBLICATE IN BOLOGNA NEL 1824.

1

ANNOTAZIONI (1)

Non credere, lettor mio, che in queste annotazioni si contenga cosa di rilievo. nzi se tu sei di quelli ch'io desidero per lettori, fa conto che il libro sia finito; lasciami qui solo co' pedagoghi a sfoderar testi e citazioni, e menare a tondo la ava d'Ercole, cioè l'autorità, per dare a vedere che anch'io così di passata ho tto qualche buono scrittore italiano, ho studiato tanto o quanto la lingua nella uale scrivo, e mi sono informato all'ingrosso delle sue condizioni. Vedi, caro ttore, che oggi in Italia, per quello che spetta alla lingua, pochissimi sanno scriere, e moltissimi non lasciano che si scriva; nè fra gli antichi o i moderni fu mai ngua nessuna civile nè barbara così tribolata a un mèdesimo tempo dalla rarità i quelli che sanno, e dalla moltitudine e petulanza di quelli che non sapendo niente, ogliono che la favella non si possa stendere più là di quel niente. Co' quali, per uesta volta e non più, bisogna che mi dii licenza di fare alle pugna come s'usa Inghilterra, e di chiarirli (sebbene, essendo uomo, non mi reputo immune dallo Dagliare) che non soglio scrivere affatto affatto come viene, e che in tutti i modi on sarà loro così facile come si pensano, il mostrarmi caduto in errore.

(1) Queste Annotazioni furono dal Leopardi pubblicate insieme colle dieci Canoni ch'egli diede alla stampa in Bologna l'anno 1824: e per la maestria dello tile, copia di lingua e squisitezza di erudizione, finezza di giudizio e di gusto, e paiono fra le più utili e ragguardevoli scritture che si abbiano in opera di fiologia. È da avvertire che siccome il Leopardi andò pur sempre limando e rimuando le cose sue, così venne talora a toglier via dalle canzoni alcuna di quelle voci che gli avevano dato materia di Nota; però da noi in tali incontri si è recato e la prima lezione dell'edizion bolognese, e l'ultima dell'edizion del Ranieri. Queste medesime annotazioni furono per disteso riportate nel Nuovo Ricoglitore (Milano, 1825), precedute da un articoletto critico, nel quale facendosi le viste di appuntare l'autore delle Canzoni, mordesi acutamente la comune schiera di lettori è poeti di quel tempo (poco diversa, crediamo, dalla presente); e come quello critto è visibilmente di mano del medesimo Leopardi, perciò alle Annotazioni le Soggiungiamo. PIETRO PELLEGRINI.

LEOPARDI. Poesie,

21

St. VI, v. 10,

CANZONE PRIMA.

ALL'ITALIA.

(Pag. 31 di questa edizione)

Vedi ingombrar de' vinti

La fuga i carri e le tende cadute (1).

Cioè trattenere, contrastare, impacciare, impedire. Questo sentimento della voce ingombrare ha due testi nel Vocabolario della Crusca; ma quando non ti paressero chiari, accompagnali con quest'altro esempio, che è del Petrarca (2): Quel sì pensoso è Ulisse, affabil ombra, Che la casta mogliera aspetta e prega; Ma Circe amando GLIEL ritiene e 'NGOMBRA. Dietro a questo puoi notare il seguente, ch'è d'Angelo di Costanzo (3): Che quel chiaro splendor ch'offusca INGOMBRA, Quando vi mira, OGNI più acuto ASPETTO (cioè vista), D'un'alta nube la mia mente adombra. Ed altri molti ne troverai della medesin.a forma, leggendo i buoni scrittori; e vedrai come anche si dice ingombro nel significato d'impedimento o di ostacolo; e se la Crusca non s'accorse di questo particolare, o non fu da tanto di spiegarlo, tal sia di lei (4).

St. VI, v. 12.

E correr fra' primieri

Pallido e scapigliato esso tiranno.

(1) Ediz. nostra, pag. 33:

Vedi intralciare ai vinti.
La fuga.

(2) Tr. d'Am., capit. 3, verso 22. (3) Son. 13.

(4) (E notabile il caso di questo povero INGOMBRARE, il quale comecchè tu il vegga in fronte di questa annotazione occupare, a così dire, onorevole e natio seggio, ed anche ti si mostri da solenne autorità corteggiato e puntellato, ciò non dimancɔ ei non è più ch'uno sbandito, e già dalla sua nobile sede scaduto, vo' dire dal medesimo testo del 24; ove ti si para invece dinanzi INTRALCIAR de'vinti, La fuga, ecc. Forse questo INGOMBRARE appariva nella primissima stampa del 18, e si vedeva nelio scritto apparecchiato per la impressione del 24, ma l'autore sopra lavoro gli surrogò INTRALCIARE, e, o dimenticanza o disegno che fosse, lasciò similmente correre la nota. Certo è che ora l'una ora l'altra di queste voci più gli abbelliva, ed elle si mettevano a vicenda in fuga; imperciocchè lo ingombrare preferito e accarezzato nella annotazione, posposto e ributtato dal testo del 24, nella edizion fiorentina del 31 riappare, e di bel nuovo è sbandeggiato da quella del 36 (Fir.). Ora non gli verrà dato ricoverare più la sua sede, tuttochè di suono più alto e poetico, è di senso non meno efficace, possa indegno sembrare d'intera sconfitta: e per noi certo non rimarrebbe ch'ei non tornasse in istato. Forse gli nocque essere di quelle bellissime e splendide voci che tutti i poeteggianti si brigano di tirare ne' loro versi a farli più luminosi e sonori; e così clia non si mantenne in grazia del Leopardi, che alla fine abbracciò l'altra più rimessa e minuta e però dalla turba de' pocti meno frequentata. P. P.)

Del qual tiranno il nostro Simonide avanti a questo passo non ha fatto menzione alcuna. Il Volgarizzatore antico dell'Epistola di Marco Tullio Cicerone a Quinto suo fratello intorno al Proconsolato dell' Asia (1): Avvegnach'io non dubitassi che questa epistola molti messi, ed eziandio ESSA FAMA colla sua velocità vincerebbono. Queste sono le primissime parole dell'Epistola. Similmente lo Speroni (2) dice che amor vince essa natura, volendo dir fino alla natura. Ve' come infusi e tinti Del barbarico sangue.

V. VI, v. 14.

Infusi qui vale aspersi o bagnati. Il Casa (3): E ben conviene Or penitenzia e duol l'anima lave De' color atri e del terrestre limo OND'ella è per mia colpa INFUSA e grave. Sopra le quali parole i comentatori adducono quello che dice lo stesso Casa in altro luogo (4): Poco il mondo già mai l'infuse o tinse, Trifon, nell'atro suo limo terreno. Ho anche un esempio simile a questi del Casa nell'Oreficeria di Benvenuto Cellini (5); ma non lo tocco, per rispetto d'una lordura che gli è appiccata e non va via.

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L'acclamazione Viva è portata nel Vocabolario della Crusca, ma non evviva. E ciò non ostante io credo che tutta l'Italia, quando fa plauso, dica piuttosto evviva che Viva: e quello non è vocabolo forestiero, ma tutto quanto nostrale; e composto, come sono infiniti altri, d'una particella o vogliamo interiezione italiana, e d'una parola italiana, a cui l'accento della detta particella o interiežione monosillaba raddoppia la prima consonante. Questo è quanto alla purità della voce. Quanto alla convenienza, potranno essere alcuni che non lodino l'uso di questa parola in un poema lirico. Io non ho animo d'entrare in quello che tocca alla ragion poetica o dello stile o dei sentimenti di queste Canzoni; perchè la povera poesia mi par degna che, se non altro, se l'abbia questo rispetto di farla franca dalle chiose. E però taccio che laddove s'ha da esprimere la somma veemenza di qualsivoglia affetto, i vocaboli o modi volgari e correnti, non dico hanno luogo, ma, quando sieno adoperati con giudizio, stanno molto meglio dei nobili e sontuosi, e danno molto più forza all'imitazione. Passo eziandio che in tali occorrenze i principali maestri (fossero poeti o prosatori) costumarono di scendere dignitosamente dalla stessa dignità, volendo accostarsi più che potessero alla natura; la quale non sa e non vuole stare nè sul grave nè sull'attillato quando è stretta dalla passione. E finalmente non voglio dire che se cercherai le Poetiche e Rettoriche antiche o moderne, troverai questa pratica, non solamente concessa, ma commendata e numerata fra gli accorgimenti necessari al buono scrittore. Lascio tutto questo, e metto mano all'arme fatata dell'esempio. Che cosa pensiamo noi che fosse quell'Io che troviamo in Orazio due volte nell'Ode seconda del quarto libro (7), e due nella

(1) Firenze, 1815, pag. 3.

(2) Dial. d'Amore. Dialoghi dello Sper. Venezia, 1596, pag. 3.

(3) Canz. 4, stanza 3.

(4) Son. 45.

(5) Cap. 7, Milano, 1311. (6) Ediz. nostra, pag. 33:

(7) V. 49, 50.

Oh viva, oh viva

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