Altro ufficio più grato Non si fa da parenti alla lor prole. Perchè reggere in vita Chi poi di quella consolar convenga? Ma tu mortal non sei, E forse del mio dir poco ti cale. Il patir nostro, il sospirar, che sia; E perir della terra, e venir meno Il perchè delle cose, e vedi il frutto Del tacito, infinito andar del tempo. A chi giovi l'ardore, e che procacci Il verno co' suoi ghiacci. Mille cose sai tu, mille discopri, Spesso quand'io ti miro Star cosi muta in sul deserto piano, Seguirmi viaggiando a mano a mano; A che tante facelle? Che fa l'aria infinita, e quel profondo E dell'innumerabile famiglia; D'ogni celeste, ogni terrena cosa, Per tornar sempre la donde son mosse; Indovinar non so. Ma tu per certo, Che degli eterni giri, Che dell'esser mio frale, Avrà fors'altri: a me la vita è male. Non sol perchè d'affanno Quasi libera vai; Ch'ogni stento, ogni danno, Ogni estremo timor subito scordi; E gran parte dell'anno Senza noia consumi in quello stato. La mente; ed uno spron quasi mi punge E pur nulla non bramo, E non ho fino a qui cagion di pianto. Non so già dir; ma fortunata sei. Ed io godo ancor poco, O greggia mia, nè di ciò sol mi lagno. Dimmi: perchè giacendo A bell'agio, ozïoso, S'appaga ogni animale; Me, s'io giaccio in riposo, il tedio assale? Forse s'avess'io l'ale Da volar su le nubi, E noverar le stelle ad una ad una, Più felice sarei, candida luna. Mirando all'altrui sorte, il mio pensiero: Stato che sia, dentro covile o cuna, E funesto a chi nasce il dì natale. XXIV. LA QUIETE DOPO LA TEMPESTA. Passata è la tempesta: Odo augelli far festa, e la gallina, Che ripete il suo verso. Ecco il sereno E chiaro nella valle il fiume appare. Torna il lavoro usato. L'artigiano a mirar l'umido cielo, Con l'opra in man, cantando, Fassi in su l'uscio; a prova Vien fuor la femminetta a còr dell'acqua Della novella piova; E l'erbaiuol rinnova Il grido giornaliero. Ecco il Sol che ritorna, ecco sorride Si dolce, sì gradita Quand'è, com'or, la vita? L'uomo a' suoi studi intende? O torna all'opre? o cosa nova imprende? Quando de' mali suoi men si ricorda? Piacer figlio d'affanno; Gioia vana, ch'è frutto Del passato timore, onde si scosse Chi la vita abborria; Onde in lungo tormento, Sudar le genti e palpitar, vedendo O natura cortese, Che tu porgi ai mortali. Uscir di pena Pene tu spargi a larga mano; il duolo D'alcun dolor; beata Se te d'ogni dolor morte risana. XXV. IL SABATO DEL VILLAGGIO. La donzelletta vien dalla campagna, In sul calar del sole, Col suo fascio dell'erba, e reca in mano Un mazzolin di rose e di viole, Onde, siccome suole, Ornare ella si appresta Dimani, al dì di festa, il petto e il crine. Su la scala a filar la vecchierella, Ed ancor sana e snella Solea danzar la sera intra di quei Torna azzurro il sereno, e tornan l'ombre Al biancheggiar della recente luna. Fanno un lieto romore: E intanto riede alla sua parca mensa, E seco pensa al dì del suo riposo. Poi quando intorno è spenta ogni altra face, E tutto l'altro tace, Odi il martel picchiare, odi la sega Del legnaiuol, che veglia Nella chiusa bottega alla lucerna, E s'affretta, e s'adopra Di fornir l'opra anzi il chiarir dell'alba. Diman tristezza e noia Recheran l'ore, ed al travaglio usato Cotesta età fiorita È come un giorno d'allegrezza pieno, Che precorre alla festa di tua vita. Stagion lieta è cotesta. Altro dirti non vo'; ma la tua festa Ch'anco tardi a venir non ti sia grave. |