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Se sotto legge, Amor, vivesse quella

Che mi toglie in amar e legge e freno; Pregherei te, che, non amando io meno, Senza arder mi scaldasse tua facella.

Ma questa falsa, fera come bella,
Si gode che per lei fendendo peno:
E sua vaghezza investe tal veneno,
Che più fendendo, più son vago d' ella.

Deh, dolce signor mio, ancor riguarda
Se la tua fiamma le puoi far sentire:
E spegni me, che la sua più non m' arda.

Se per sua colpa mi vedrà morire,
Averanne pietà, benchè sia tarda :
Pur sarà mia vendetta 'l suo languire.

Lasso, com' io fui mal approveduto

L'ora ch' io mi fidai negli occhi miei
Che trattaron cogli occhi di costei
In vago inganno ond' io son sì traduto!

Schiavo son fatto: e ciascun dì tributo
Di profondi sospiri farò a lei

Finchè Morte pon fine ai giorni rei,
O tu, dolce signor, mi mandi aiuto.

Sai che tal strazio a te è disonore,
Sotto lo cui richiamo io son deriso
Da questa dispregiante 'l tuo valore.

Signor, fa vaga lei del suo bel viso,

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Da poi che fuor di sè non sente ardore : Rinnova in lei l'esempio di Narciso.

Il seguente Sonetto si trova anche ne' Frammenti pubblicati dall' Ubaldini, ma molto

variato.

Quella che 'I giovenil mio cor avvinse

Nel primo tempo ch'io conobbi Amore;
Del su' albergo leggiadro uscendo fore,
Con gran mio duol d' un bel nodo mi scinse.

Nè poi nova bellezza l'alma strinse;
Nè luce circondò che fesse ardore,
Altro che la memoria del valore
Che con dolci durezze la sospinse.

Ben volse quei che con begli occhi aprilla,
Con altre chiavi riprovar su' ingegno:
Ma nova rete vecchio augel non prende.

E

pur fui in dubbio tra Cariddi e Scilla; E passai le Sirene in sordo legno,

Com' uom che par c' ascolti, e nulla intende.

Nel ms. del p. Zeno a c. 49, e nell' edizion fiorentina, tra le cose rifiutate.

Quella ghirlanda che la bella fronte

Cingeva, di color tra perle e grana,
Sennuccio mio, parveti cosa umana,
O d' angeliche forme al mondo gionte?

Vedestù l'atto, e quelle chiome conté,
Che spesso il cor mi morde e mi risana?
Vedestù quel piacer che m' allontana
D'ogni vile pensier c' al cor mi monte?

Udistù 'l suon delle dolci parole?

Mirastù quell' andar leggiadro, altero,
Dietro a chi ò disvïati i pensier miei?

Soffristù 'l sguardo invidioso al sole !

Or sai per ch'io ardo, vivo e spero;
Ma non so dimandar quel ch' io vorrei .

Nel ms. del p. Zeno dopo la Canzone Vergine bella ec. a carte 69 si trova il seguente Sonetto, indegno affatto del Petrarca.

Poi c' al Fattor dell' universo piacque

Di voi ornare il nostro secol tutto;
Non è, quanto si crede, ancor distrutto
Quell' aureo tempo che molti anni giacque.

Ma perchè pianta di vostro seme nacque,
Che mostrò al mondo già mirabil frutto;
Non come legno nel terreno asciutto,
Anzi come piantato presso all'

E se di tanti ben siete radice,

acque:

E 'nfra le selve alpestre e pellegrine
Di rame, più che nulla altra, felice:

Statti salda Colonna insino al fine;
Come 'I titulizado afferma e dice;
Alle dannose italiche rüine.

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