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SONETTO XXIII.

Quand' io veggio dal ciel scender l' Aurora

Colla fronte di rose, e co' crin d'oro;
Amor m' assale: ond' io mi discoloro,
E dico sospirando: Ivi è Laura ora.

O felice Titon! tu sai ben l' ora

Da ricovrare il tuo caro tesoro ::
Ma io, che debbo far del dolce Alloro;
Che se 'l vo' riveder, conven ch' io mora!

I vostri dipartir non son sì duri;

C' almen di notte suol tornar colei

Che non à a schifo le tue bianchè chiome :

Le mie notti fa triste, e i giorni oscuri Quella che n' à portato i pensier miei, Nè di sè m' à lasciato altro che 'l nome.

SONETTO XXIV.

Gli occhi di ch' io parlai sì caldamente;

E le braccia e le mani e i piedi e 'l viso,
Che m' avean sì da me stesso diviso,
E fatto singular dall' altra gente;

Le crespe chiome d' or puro lucente,
E'l lampeggiar dell' angelico riso,
Che solean far in terra un Paradiso;
Poca polvere son, che nulla sente :

Ed io pur vivo; onde mi doglio e sdegno,
Rimaso senza 'l lume c' amai tanto,
In gran fortuna e 'n disarmato legno.

Or sia qui fine al mio amoroso canto:
Secca è la vena dell' usato ingegno,
E la cetera mia rivolta in pianto.

SONETTO XXV.

S'io avessi pensato che si care

Fossin le voci de' sospir mié' in rima,
Fatte l'avrei dal sospirar mio prima.
In numero più spesse, in stil più rare,

Morta colei che mi facea parlare,

E che si stava de' pensier mié' in cima;

Non posso, e non più si dolce lima, Rime aspre e fosche far söavi e chiare.

E certo ogni mio studio in quel temp' era
Pur di sfogare il doloroso core

In qualche modo; non d' acquistar fama.

Pianger cercai; non già del pianto onore. Or vorrei ben piacer: ma quella altera, Tacito, stanco, dopo sè mi chiama.

SONETTO XXVI.

Soleasi nel mio cor star bella e viva,

Com' alta donna in loco umile e basso:
Or son fatt' io, per l' ultimo suo passo,
Non pur mortal, ma morto; ed ella è diva.

L'alma d' ogni suo ben spogliata e priva,
Amor della sua luce ignudo e casso,
Devrian della pietà romper un sasso:
Ma non è chi lor duol riconti o scriva;

Che piangon dentro ov' ogni orecchia è sorda,
Se non la mia cui tanta doglia ingombra,
C' altro che sospirar, nulla m' avanza.

Veramente siam noi polvere ed ombra;
Veramente la voglia è cieca e 'ngorda;
Veramente fallace è la speranza. ›

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SONETTO XXVII.

Soleano i miei pensier söavemente
Di lor obietto ragionar inseme:
Pietà s'appressa, e del tardar si pente:
Forse or parla di noi, o spera o teme.

Poichè l'ultimo giorno e l' ore estreme Spogliar di lei questa vita presente; Nostro stato dal Ciel vede, ode e sente: Altra di lei non è rimaso speme.

O miracol gentile! o felice alma!
O beltà senza esempio altera e rara!
Che tosto è ritornata ond' ella uscio.

Ivi à del suo ben far corona e palma
Quella c' al mondo si famosa e chiara
Fe la sua gran virtute, e 'l furor mio.

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