SONETTO XXVIII. I'mi soglio accusare; ed or mi scuso, Anzi mi pregio e tengo assai più caro ; Invide Parche, sì repente il fuso Troncaste c' attorcea söave e chiaro Che non fu d' allegrezza a' suoi dì mai, Togliendo anzi per lei sempre trar guai, Che cantar per qualunque; e di tal piaga Morir contenta, e viver in tal nodo. SONETTO XXIX. Due gran nemiche insieme erano aggiante, Bellezza ed Onestà, con pace tanta, Ed or per morte son sparse e disgiunte: L'una è nel Ciel che se ne gloria e vanta; L'altra sotterra ch'e' begli occhi ammanta Ond' uscir già tante amorose punte. L'atto soave; e 'l parlar saggio umíle, Che movea d'alto loco; e 'l dolce sguardo Che piagava 'l mio core, ancor l'accenna; Sono sparities' al seguir son tardo, SONETTO XXX. Quand' io mi volgo indietro a mirar gli anni C'anno, fuggendo, i miei pensieri sparsi; E spento 'l foco ov' agghiacciando i' arsi ;› E finito 'l riposo pien d' affanni; Rotta la fè degli amorosi inganni; E sol due parti d' ogni mio ben farsi ; L'una nel Cielo, e l' altra in terra starsi; E perduto 'l guadagno de' miei danni; I' mi riscuoto; e trovomi sì nudo, Ch' i' porto invidia ad ogni estrema sorte ; Tal cordoglio e paura ò di me stesso. O mia stella, o fortuna, o fato, o morte, SONETTO XXXI. Ov'è la fronte che con picciol cenno Volgea 'l mio core in questa parte e 'n quella? Ov'è 'l valor, la conoscenza e 'l senno, Ov'è l'ombra gentil del viso umano C' óra e riposo dava all' alma stanca, Ov'è colei che mia vita ebbe in mano? Quanto al misero mondo, e quanto manca Agli occhi miei che mai non fieno asciutti! SONETTO XXXII: Quanta invidia ti porto, avara terra Quanta ne porto al Ciel che chiude e serra, Quanta invidia a quell' anime che 'n sorte Quanta alla dispietata e dura Morte |