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III

Ultimi aspetti della critica del Rinascimento; forme e idee di critica nuova indipendente dagli antichi. Il razionalismo in letteratura. La fantasia.

GALILEO GALILEI

(1564 - 1642)

Galileo possiede quello spirito universale e fine ch'è ben noto, è intendente di musica e appassionato lettore di Dante, d'Ariosto, del Berni, è artista egli stesso di primissimo ordine nelle sue scritture scientifiche per lo stile ricco, espressivo, perspicuo, che vale non meno delle sue scoperte nel regno della fisica a mostrare la potenza della luminosa fantasia creatrice.

Fra i poeti, egli porta amore particolare all'Ariosto ed egli è consapevole criticamente di questa sua preferenza. L'Ariosto è sostanziato di verità; e la sua poesia rispecchia la bella natura con nitidezza ed evidenza, con lieve signorile ironia serenatrice e compiacimento e riso d'arte fulgidissimo, senza alterare minimamente con sovrapposizioni idealistiche d' indole morale o religiosa il vivo vero. La posizione di Galileo critico è quella medesima di lui scienziato contro le superstizioni e le ideologie degli ignoranti, contro la pigrizia, la timidezza, la verbosità vuota dei tradizionalisti e dei retori, sta lo splendore della nuda natura, che a' suoi occhi è veramente il libro di Dio, a cui è volta tutta la sua venerazione ed ammirazione, che è l'ultimo termine del vero e del bello, che alla sua vista acuta e sgombra parla con caratteri che si fanno via via intelligibili sì da parer rinnovato in lui il miracolo d'una rivelazione. Tale la posizione della mente di Galileo così critico come scienziato : : e nient'altro che tale era lo spirito autentico della Rinascita quale s'era incarnato e nell'Ariosto poeta e nel Machiavelli politico e storico.

Perciò il Furioso è il suo poema, ch'egli non si stanca mai di leggere e in cui gli si rivelano sempre bellezze nuove e l'opposto dell'Ariosto gli riesce il Tasso, il poeta che, nello sforzo d'idealizzare la natura (conforme all'esigenza religiosa e morale dei tempi) la guasta, sicchè senz'accorgersi, con occhio turbato e mano tremante, ritrae figure talvolta alquanto goffe e insipide. Al Tasso anche nuoce la sua personale sensibilità eccessiva, la quale contribuisce a togliergli quella visione ferma del mondo, e gl'impedisce di sen

tire in sè stesso i suoi eroi e le situazioni secondo quella suprema legge del decoro, che formano due dei caratteri precipui della civiltà del Rinascimento, in cui era stato restaurato quell'ideale di calma e forte individualità, che fu già sommo ideale del paganesimo, soprattutto nell'arte. E anche ciò è avvertito e riprovato da Galileo, che su quella legge del decoro violata dal Tasso insiste spesso.

Sintetizzando in una sentenza conclusiva il giudizio sul Tasso e sull'Ariosto, Galileo si esprime più volte così: « quegli dice parole e questi cose ».

UN CRITICO REALISTA CONTRO UN POETA IDEALISTA (*)

CANTO I.

St. p., v. 8 ('). Uno tra gli altri difetti è molto fami. liare al Tasso, nato da una grande strettezza di vena e povertà di concetti: ed è, che mancandogli ben spesso la materia, è costretto andar rappezando insieme concetti spezati e senza dependenza e connessione tra loro, onde la sua narrazione ne riesce più presto una pittura intarsiata, che colorita a olio; perchè, essendo le tarsie un accozamento di legnetti di diversi colori, con i quali non possono già mai accoppiarsi e unirsi così dolcemente che non restine i lor confini taglienti e dalla diversità de' colori crudamente distinti, rendono per necessità le lor figure secche, crude, senza tondeza e rilievo; dove che nel colorito a olio, sfumandosi dolcemente i confini, si passa senza crudeza dall'una all'altra tinta, onde la pittura riesce morbida, tonda, con forza e con rilievo. Sfuma e tondeggia l'Ariosto, come quelli che è abbondantissimo di parole, frasi, locuzioni e concetti; rettamente, seccamente e crudamente conduce le sue opere il Tasso per la povertà

(*) GALILEO GALILEI, Considerazioni al Tasso, in Opere, ediz. nazionale.

(1) Canto l'arme pietose e 'l capitano

Che 'l gran sepolcro liberò il Cristo;
Molto egli oprò col senno e con la mano,
Molto soffri nel glorioso acquisto.

E invan l'Inferno vi s'oppose, e in vano
S'armò d'Asia e di Libia il popol misto;
Chè favorillo il cielo, e sotto a i santi
Segni ridusse i suoi compagni erranti.

di tutti i requisiti al ben oprare. Andiamo adunque esaminando con qualche riscontro particolare questa verità: e questo andare empiendo, per brevità di parole, le stanze di concetti che non ànno una necessaria continuazione con le cose dette e da dirsi, l'addomanderemo intarsiare.

Comincia dunque a lavorar un pochetto di tarsie in questa prima stanza; ed essendosi condotto con assai buona continuazione insino al settimo verso, ci esce addosso con un particolare, spiccato dalle cose precedenti e posto qui per ripieno; perchè a non voler che il dire Il ciel ridusse i suoi compagni sotto i santi segni stesse qui senza dependenza, bisognava che di sopra egli avesse detto che in vano l'Inferno disperse i suoi compagni, e non che in generale se gli oppose; e chi non averà prima letto tutto 1 libro, non potrà sapere a che proposito sia detto questo, che «il cielo ridusse i compagni» etc..

St. 46, v. p.o (1) Quell' È fama che quel dì, o referiscasi al verbo cercò, o all'altro, posto nell'altra stanza, apparse, par che sia contro alle regole gramaticali, e che il dover voglia che si dica cercasse o apparisse, acciò che Cantalicio non vadia in collera. Pure tra loro litteratoni se la strighino; noi cominciamo ormai a discorrere intorno a cose di maggior momento.

Mi è sempre parso e pare, che questo poeta sia nelle sue invenzioni oltre tutti i termini gretto, povero e miserabile, e all'opposito, l'Ariosto magnifico, ricco e mirabile: e quando mi volgo a considerare i cavalieri con le loro azzioni e avvenimenti, come anche tutte l'altre favolette di questo poema, parmi giusto d'entrare in uno studietto di qualche ometto curioso, che si sia dilettato di adornarlo di cose che abbiano, o per antichità o per rarità o per altro, del pellegrino, ma che però sieno in effetto coselline, avendosi, come saria a dire, un granchio petrifi

(1) E' fama che quel dì che glorioso

Fe' la rotta de' Persi il popol Franco,
Poi che Tancredi al fin vittorioso
I fuggitivi di seguir fu stanco,

Cercò di refrigerio e di riposo

A l'arse labbia, al travagliato fianco,

E trasse ove invitollo al rezzo estivo

Cinto di verdi seggi un fonte vivo.

Quivi a lui d'improvviso una donzella,
Tutta, fuor che la fronte, armata apparse.

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